Pena e sua quantificazione: il giudice deve tener conto della sanzione amministrativa già irrogata (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 3 con la sentenza numero 5899 depositata il 13 febbraio 2023 ha stabilito che ai fini della determinazione della pena si deve tener conto della sanzione amministrativa erogata ai fini della quantificazione della sanzione penale.

La cassazione premette che l’omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette è sanzionata in via amministrativa dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997; ai fini della integrazione dell’illecito amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione, che qualifica, invece, il delitto dl “omessa dichiarazione” di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, né il superamento di una soglia di punibilità: è sufficiente che, anche solo per colpa, il contribuente ometta di presentare la dichiarazione, non rilevando l’entità dell’imposta evasa né il fine della condotta.

Sul piano strutturale, dunque, non v’è piena sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente integra, pertanto, due diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati sia in sede penale che in sede amministrativa.

Dunque, l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un’unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro.

I Supremi giudici nel precisare che nel caso in esame la condanna del ricorrente non ha infranto il divieto di bis in idem di matrice convenzionale in quanto alla natura “penale” del procedimento (e dell’accusa), che non è sufficiente la qualificazione formale del fatto-reato data dall’ordinamento interno; se così fosse, la latitudine applicativa del divieto sarebbe lasciata alla discrezione degli Stati contraenti in una misura che potrebbe portare a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, 10/02/2009, caso Sergey Zoiotukhin contro Russia, § 52; Corte EDU, Grande Camera, 21/02/1984, caso Ozttirk contro Turchia, § 49; Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, §§ 106-107).

Occorre aver riguardo agli stessi criteri autonomamente elaborati dalla Corte EDU in sede di interpretazione della parola “reato” contenuta negli artt. 6 e 7 della Convenzione, in particolare ai cd. “Engel criteria” (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, cit. § 107):

1) la qualificazione dell’illecito in base all’ordinamento interno;

2) la natura in sé dell’offesa;

3) il grado e la severità della sanzione prevista (gli ‘Engel criteria’ sono stati elaborati per la prima volta dalla Corte EDU in sede di applicazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione, nella sentenza Corte EDU, Grande Camera, 8/06/1976, caso Engel ed altri c. Paesi Bassi, § 82).

Il secondo ed il terzo criterio sono alternativi, nel senso che un fatto potrebbe non essere considerato in sé “criminale in natura” o non appartenere alla “sfera criminale” (secondo il linguaggio adoperato dalla Corte EDU in sede di interpretazione degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU) e tuttavia potrebbe essere qualificato come reato, ai sensi e per gli effetti della Convenzione EDU, in base al grado e alla severità della sanzione.

Questo però non preclude un esame congiunto di tutti i criteri se nessuno di essi, isolatamente considerati, consente di pervenire ad una soluzione chiara sulla qualificazione del fatto come “reato” secondo la Convenzione EDU. La conseguenza è che se uno dei procedimenti o una delle condanne non riguardano fatti considerati “reato” secondo la Convenzione EDU, come autonomamente interpretata dalla Corte EDU, il ricorso che denunzia la violazione del divieto di bis in idem è inammissibile ai sensi dell’art. 35 § 3 della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, caso Paskas contro Lituania, § 69).

In numerose decisioni e sentenze la Corte EDU ha affermato che le sanzioni amministrative previste per il mancato pagamento delle tasse possono avere natura sostanzialmente penale e che di conseguenza hanno natura penale i procedimenti per la loro applicazione.

Il principio è stato ribadito nella citata sentenza A e 8 contro Norvegia, cit. (§§ 136-139) che ha affermato la natura penale della sovrattassa del 30% (§ 139). 10 Corte di Cassazione – copia non ufficiale 4.20. Nel caso di specie, la sanzione amministrativa minacciata e concretamente applicata al contribuente ha un’evidente componente dissuasiva (in sede di previsione astratta) e afflittiva (in sede concretamente applicativa), non essendo finalizzata al solo risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente.

La sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, infatti, va dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’imposta dovuta; quella concretamente applicata è pari ad euro 467.562,70, di gran lunga superiore al 30% dell’imposta evasa nell’anno 2012 (euro 99.353,64) e nell’anno 2013 (euro 67.129,65). Si tratta di sanzione che, alla luce dei criteri indicati dalla Corte EDU (cd. Engels criteria), ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU.

Tale sanzione si aggiunge a quella applicata in sede penale al ricorrente, pari a un anno e due mesi di reclusione.

Quanto alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato per il medesimo fatto storico, occorre svolgere ulteriori considerazioni.

Un utile criterio può essere fornito, in primo luogo, dall’art. 135 cod. pen. che fornisce l’unità di misura della sanzione (sostanzialmente e formalmente) penale applicabile per il medesimo fatto storico. Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (euro 250 per un giorno di pena detentiva), la sanzione di euro 467.562,70 corrisponde a oltre cinque anni di reclusione (467.562,70/250=1870), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso di specie e per il medesimo fatto, pari a più di sei anni di reclusione.

Naturalmente, il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della applicazione della sanzione penale.

A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., che consentono di determinare la pena in misura inferiore al minimo edittale previsto per lo specifico reato; può adeguare gli aumenti di pena applicabili per i reati-satellite; può tener conto anche delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (non solo meramente retributivo).

È evidente, infatti, che l’effetto dissuasivo della componente pecuniaria della sanzione complessiva è diverso a seconda delle condizioni economiche della persona fisica alla quale è irrogata.

La regola stabilita dall’art. 133-bis cod. pen. può essere considerata, al riguardo, espressione di un principio generale coerente con la finalità rieducativa della pena.

Il principio di proporzionalità della pena complessiva non si applica, all’evidenza, quando al giudice penale risulta che la sanzione amministrativa è stata pagata da un soggetto diverso dall’autore del reato (art. 11, commi 5 e 6, d.lgs. n. 472 del 1997), non essendovi, in tal caso, nulla da compensare. Escluso, dunque, che nel caso di specie la condanna del ricorrente abbia, infranto il divieto di ‘bis in idem’ di matrice convenzionale, la Corte di appello non ha però fornito risposta al motivo con cui è stata dedotta la sproporzione della sanzione complessivamente applicata, non avendo tenuto conto, nella commisurazione della pena, della sanzione amministrativa irrogata all’imputato per il medesimo fatto.

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame.