Si sente spesso che siamo quello che mangiamo.
Vero, ma anche quello che diciamo.
Parliamo e parlando esprimiamo ciò che siamo o che vorremmo essere, ciò che vogliamo gli altri pensino di noi o facciano per noi.
È così per tutti gli esseri umani, compresi quelli che hanno il compito di giudicare.
TF analizza soprattutto la giurisprudenza di legittimità ed è sul suo linguaggio che ci concentreremo anche questa volta.
Selezionerò, pescando in vecchi scritti (tanto, la situazione è sempre uguale), alcuni esempi che mi sembrano i più significativi del pensiero che donne e uomini del Palazzaccio hanno di sé in relazione al resto del mondo.
Scuole e maestri
Un paio di generazioni fa – posso testimoniarlo, c’ero – nelle classi delle elementari imperava un’unica maestra (assai più raramente un maestro).
Era considerato non solo indispensabile ma anche lodevole l’uso a fini pedagogici di una moderata violenza fisica e linguistica: da qui le classiche bacchettate ma anche improperi di varia intensità agli scolari svogliati o disattenti o anche solo divergenti per qualsiasi ragione dal modello standard.
Ecco, a scorrere le decisioni della nostra Suprema Corte sembra che la maggior parte dei magistrati che ne fanno parte applichino ancora quel modello da ancien regime.
Capita infatti di leggere motivazioni in cui la Cassazione si presenta come “cattedra nomofilattica” che ovviamente si evolve in “suprema cattedra” se si parla delle Sezioni unite.
A cascata le parole delle decisioni non sono più soltanto parole ma “lezioni” ermeneutiche o interpretative o esegetiche e, se le si mette insieme, acquisiscono il rango di “insegnamento“.
Quest’ultimo termine è quasi sempre rafforzato da un aggettivo: autorevole, consolidato, tradizionale, costante, concorde ma anche, e questa volta drammaticamente, dimenticato, ignorato, tradito.
Bisogna dare un senso alle cose e la tesi più plausibile è che almeno un certo numero di magistrati della Corte di cassazione si “pensino” come maestri cui spetta dare lezioni, controllare se i discenti ne hanno tratto frutto e rimproverare chi è stato disattento o svogliato. Come dire che, almeno sul piano giurisdizionale, esiste una comunità costituita da qualche centinaio di docenti e da varie decine di milioni di alunni.
Ormeggi ed edilizia
In un diluvio di sentenze si usa l’espressione “saldamente ancorato/a“.
Come tutti sanno l’ancoraggio è un termine proprio sia della marineria che dell’edilizia. Nel primo caso indica il luogo in cui un natante può gettare l’ancora per l’ormeggio o la relativa manovra, nel secondo il dispositivo che fissa al suolo strutture sottoposte a particolari sollecitazioni o collega le loro parti. Il saldo ancoraggio è, ça va sans dire, proprio delle decisioni impugnate (meglio: del loro “percorso argomentativo”) e il punto di aggancio è costituito dalle “risultanze processuali” o, in alternativa, dalle “emergenze probatorie” o dal “compendio probatorio”. Molto spesso l’apprezzamento per la decisione contestata raddoppia con il riconoscimento della sua “chiara e puntuale coerenza argomentativa”. Altrettanto spesso l’ancoraggio e la coerenza equivalgono a un biglietto di sola andata verso l’inammissibilità del ricorso. Si può quindi concludere che in questi casi la navicella giurisdizionale (o l’opera in cantiere) ha superato indenne ogni avversità atmosferica approdando in un porto sicuro. È andato invece incontro a un destino opposto l’altro natante, quello della difesa, schiantandosi contro le insuperabili barriere che lo separavano dalla meta.
Il Rambo che è in noi
Plurime decisioni contengono la locuzione “prova di resistenza”. Non è un impegno da prendere alla leggera: se il ricorrente non lo rispetta, la sua impugnazione sarà considerata “aspecifica” e quindi inammissibile; se lo rispetta ma non riesce a dimostrare che l’eliminazione dei dati inutilizzabili o nulli travolge anche gli altri, l’impugnazione sarà rigettata. L’espressione qui in esame rimanda a varie possibili situazioni. Vengono in mente i corsi di sopravvivenza, cioè le occasioni formative in cui si impara a fare a meno delle comodità e degli ausili tecnologici e a resistere ciò nonostante a condizioni avverse. Sono propagandati con slogan che fanno leva sul nostro retaggio ancestrale, del tipo “non sfidare la natura, sfida te stesso” e proposti alla potenziale clientela con formule accattivanti, come ad esempio “adrenalina pura”. Pare proprio un marketing azzeccato se un grande della storia come Winston Churchill, dopo essere scampato a un attentato, disse che “Niente è più emozionante nella vita che vedersi sparare addosso e non essere colpiti”. Si potrebbe anche pensare agli stress test ma si crede di avere già reso l’idea e non si insiste.
Siamo soli nell’universo
Migliaia di sentenze enunciano il sacro principio dell’”autosufficienza”.
Meglio spiegarlo con le parole di una di esse: “il ricorrente non si avvede che era suo onere far risultare tale ultima circostanza (non documentata dalla sentenza impugnata) mediante modalità idonee, quali l’integrale riproduzione in ricorso del relativo passo del verbale di udienza, l’allegazione in copia, o, quanto meno, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito, in modo da non costringere la Corte di cassazione alla lettura indiscriminata del fascicolo stesso e ad una ricerca “al buio”.
La ricerca al buio, ma stiamo a scherza’, direbbe Radi.
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