Sovraffollamento carcerario: per la Cassazione è disumano se in Grecia, accettabile se in Italia (di Vincenzo Giglio)

Cass. pen., Sez. 6^, sentenza n. 5712/2023 (udienza dell’8 febbraio 2023), in accoglimento di un ricorso difensivo, ha annullato con rinvio una sentenza della Corte di appello di Milano emessa pochi giorni prima (12 gennaio 2023) che, in esecuzione di un mandato di arresto europeo, aveva disposto la consegna all’autorità greca di un uomo condannato per duplice omicidio e altri reati in materia di armi.

Questa la motivazione:

Con unico motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 18, comma 1, lett. h), della legge n. 22 aprile 2005, n. 69, in quanto la sentenza impugnata ha motivato in modo meramente apparente in ordine all’insussistenza del rischio per la persona richiesta in consegna di subire, in caso di trasferimento nella casa di reclusione di Korydallos, trattamenti inumani e degradanti.

La censura relativa all’omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine al rischio di trattamenti inumani e degradanti in relazioni alle condizioni di sovraffollamento delle carceri greche è fondata.

La Gran Camera della Corte di Giustizia nella sentenza 5 aprile 2016 (C-404/15, Aaranyosi, e C-659/15, Caldararu) ha affermato che l’esecuzione del mandato di arresto europeo non può mai condurre ad un trattamento inumano o degradante.

Il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta corrispondente all’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, rappresenta, infatti, un valore fondamentale dell’Unione europea, avente carattere assoluto, in quanto strettamente connesso al rispetto della dignità umana.

È, pertanto, onere dell’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, che decide in ordine alla consegna, in presenza di rischi concreti di violazione dell’art. 3 CEDU (e 4 CDFUE), valutare se sussista un concreto pericolo che tali trattamenti si verifichino a danno dei soggetti detenuti nello Stato membro emittente.

Tale valutazione dovrà essere condotta sulla base di «elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione».

La Corte di Giustizia ha, inoltre, precisato che «tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite».

Questa Corte, in adesione alle indicazioni provenienti dalla Corte U.E., ha da tempo stabilito quale sia il controllo che la corte di appello deve effettuare allorquando sia rappresentato dalla persona richiesta in consegna, sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati, il serio pericolo di essere sottoposta ad un trattamento inumano e degradante nello Stato di emissione (tra le tante, Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Rv. 267296; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Rv. 269211).

Una volta accertata l’esistenza di un generale rischio attuale di trattamento inumano da parte dello Stato membro, attraverso fonti affidabili, deve, infatti, essere verificato se, in concreto, la persona oggetto del mandato di arresto europeo potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano (ex plurimis: Sez. 6, n. 10822 del 16/03/2021, Rv. 280852 – 01).

Va svolta, quindi, un’indagine mirata ad accertare, attraverso informazioni “individualizzate” che devono essere richieste allo Stato di emissione, quale sarà il trattamento carcerario cui concretamente il consegnando sarà sottoposto con riferimento a quegli aspetti ritenuti dalle fonti affidabili critici, in quanto costituenti situazioni di rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti.

Ove il tenore di dette informazioni escluda siffatto rischio, la Corte di appello deve limitarsi, in conformità al principio del mutuo riconoscimento, a prendere atto delle stesse e procedere alla consegna, senza poter pretendere garanzie di sorta sul rispetto delle condizioni di detenzione (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, in motivazione; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Rv. 269211; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, in motivazione).

Qualora, invece, tale rischio non sia escluso e la Corte di appello debba rifiutare la consegna, la sentenza che decide sulla consegna deve considerarsi emessa “allo stato degli atti”, così da poter essere sottoposta a nuova valutazione, laddove l’ostacolo alla consegna dovesse venir meno (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, in motivazione; Sez. 6, n. 35290, 19/07/2018, Rv. 273780).

Declinando tali consolidati principi nel caso di specie, deve rilevarsi come la Corte di appello non abbia escluso adeguatamente la sussistenza di un concreto rischio di violazione del diritto fondamentale della persona richiesta in consegna a non subire trattamenti inumani e degradanti in ragione delle condizioni di sovraffollamento nei penitenziari greci.

La Corte di appello di Milano, infatti, si è limitata a rilevare che «la situazione asseritamente degradante delle carceri greche è stata espressa in termini di genericità. La documentazione depositata dalla difesa non è recente e si riferisce al dicembre 2021».

La Corte di appello ha, inoltre, rilevato che «l’Autorità greca ha comunicato il luogo di detenzione (Korydallos), in relazione al quale non sono state mosse specifiche doglianze dalla difesa per quanto concerne le condizioni sanitarie o il trattamento penitenziario, sicché non è necessario richiedere ulteriori informazioni».

A fronte delle specifiche censure formulate dalla difesa e della dimostrazione, sulla base del Report del Comitato per la prevenzione della tortura del 2 settembre 2022 e della recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza resa nel caso Kargakis, di un rischio reale di trattamenti inumani e degradanti (Corte EDU, Sez., I, 14 gennaio 2021, Kargakis contro Grecia), dunque, la Corte di appello ha motivato in modo meramente apparente su questo punto decisivo ai fini dell’accoglimento della richiesta di consegna formulata dall’autorità giudiziaria estera e non ha svolto gli accertamenti individualizzanti richiesti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e dal costante orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere accolto e deve essere disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Milano per nuovo giudizio sul punto al fine di acquisire informazioni precise e aggiornate in merito alle condizioni di detenzione cui sarebbe sottoposta la persona richiesta in consegna, ove venisse disposta la sua consegna, e verificare se le stesse concretino o meno un serio pericolo di trattamenti inumani e degradanti“.

Argomentazioni ineccepibili, niente da aggiungere.

Leggiamo adesso cosa dice Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 10405/2022 (udienza del 17 novembre 2021) sul ricorso presentato da un detenuto in Italia che lamentava di avere subito trattamenti disumani e degradanti a causa delle pessime condizioni detentive riservategli.

Recentemente, si sono pronunciate sul tema le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Ministero Giustizia v. Commisso), affermando i seguenti principi di diritto: – nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della CEDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello; – i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. Orbene, le conclusioni alle quali è giunto il Tribunale di sorveglianza di R. sono pienamente sintoniche alle riportate direttive della giurisprudenza nazionale in linea con i criteri dettati dalla Corte Europea, dandosi atto nell’impugnata ordinanza che la camera detentiva in cui è allocato il ricorrente ha dimensioni che assicurano uno spazio libero individuale compreso tra i tre e i quattro metri quadri, al netto del bagno, dei letti, degli armadietti e dello scrittoio non amovibile. Inoltre, sono state valutate le criticità evidenziate dal ricorrente, rimarcandone gli elementi compensativi, quanto alla possibilità di azionare l’illuminazione artificiale mediante un interruttore, nonché di effettuare una doccia giornaliera in locali comuni, onde ovviare alla carenza di acqua calda nella camera di detenzione. L’ulteriore disagio della consumazione dei pasti in cella non è stato ritenuto di incisiva gravità. Del resto, questa Corte di cassazione ha affermato che in tema di rimedi risarcitori ex art. 35-ter ord. pen., non costituisce trattamento inumano o degradante, rilevante ai sensi dell’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la situazione di “mero disagio” collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti né prevedibili, la cui rimozione richiede tempi di intervento non sempre programmabili (Sez. 1, n. 14258 del 23/1/2020, Rv. 278898)“.

Adesso confrontiamo le due decisioni.

La nostra Suprema Corte non si fida della Grecia, accusa di inerzia e qualunquismo la Corte d’appello, le imputa una motivazione meramente apparente e le impone di compiere indagini mirate e di acquisire informazioni individualizzate.

Tende invece a concedere un largo credito all’Italia, spacca il capello in quattro, cita l’illuminata decisione delle Sezioni unite cui si deve la valorizzazione del favoloso concetto dei “fattori compensativi” in virtù dei quali la disponibilità di uno spazio inferiore ai tre metri quadri non è disumana e degradante se al detenuto si permette di respirare per un po’ fuori della cella e infine conclude che si può tollerare “la situazione di “mero disagio” collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti né prevedibili, la cui rimozione richiede tempi di intervento non sempre programmabili“.

Right or wrong, my country, direbbero gli inglesi.