Sequestro preventivo di beni sottoposti a procedura fallimentare: il conflitto interpretativo continua (di Vincenzo Giglio)

Fatto

Il GIP ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di una somma rilevante in danno della società fallita T.A. SRL in quanto profitto del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000.

Il tribunale ha respinto la richiesta di riesame del curatore fallimentare il quale ha fatto ricorso per cassazione.

Il primo e più rilevante motivo è fondato sul presupposto, avallato da un consistente indirizzo interpretativo, per il quale, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, il sequestro preventivo dei beni della società non può più essere eseguito, dato che i beni oggetto della predetta misura cautelare reale sono nella disponibilità della curatela fallimentare (Sez. 2, n. 19682 del 13/04/2022): il vincolo apposto a seguito della dichiarazione di fallimento sul patrimonio della persona fisica o giuridica, che ne è la destinataria, importa lo spossessamento e il venire meno del potere di disporne in capo al fallito, essendo automaticamente trasferito agli organi della procedura fallimentare, con attribuzione al curatore del compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Sez. 3, n. 47299 del 16/11/2021; Sez. 3, n. 12125 del 5/02/2021). Tale dato normativo, che non sarebbe stato valutato dal Tribunale del riesame, sarebbe di ostacolo all’applicabilità dell’art. 12-bis del d. lgs. n. 74/2000.

La curatela ricorrente assume che questa visione è stata implicitamente condivisa dalla sentenza delle Sezioni unite n. 45936 del 26/11/2019, perché la peculiare natura dell’attivo fallimentare «è di ostacolo all’applicabilità dell’art. 12-bis d. lgs. n. 74/2000, che individua, quale limite all’operatività della confisca, l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato a terzi estranei al reato». Su questa premessa, la difesa osserva come la giurisprudenza, per quanto attiene alla confisca diretta del profitto o del prezzo del reato, riferendosi al concetto di “appartenenza”, ha inteso privilegiare una forma di dominio sui beni di natura sostanziale, essendo pacifico che, dopo la dichiarazione di fallimento, i beni della massa fallimentare cessano di appartenere al fallito, in quanto quest’ultimo non può più né disporne né goderne in termini giuridicamente rilevanti.

Nel caso di specie, la curatela aveva la disponibilità dei beni della società fallita ed era soggetto terzo estraneo al reato, in quanto la T.A. SRL era stata dichiarata fallita in data antecedente all’emissione del provvedimento cautelare.

Nel motivo di ricorso si evidenzia ulteriormente che la stessa legittimazione del curatore all’impugnativa dei provvedimenti in materia reale costituisce premessa logica dell’esclusione di una subordinazione della procedura fallimentare rispetto al sequestro preventivo, non potendosi negare la posizione di terzietà di quest’ultimo rispetto al soggetto indagato (Sez. 2, n. 19682 del 13/04/2022). In questa prospettiva, la soluzione interpretativa condivisa dal giudice del riesame si rivela paradossale, in quanto si determinerebbe, non solo una inammissibile violazione della regola della par conditio creditorum, ma anche la postergazione dei creditori che godano di una posizione privilegiata rispetto alla massa fallimentare e degli stessi interessi tributari, che non siano assistiti, nel caso di omissione del loro adempimento, dalla previsione di un illecito penale (Sez. 3, n. 11068 del 28/09/2021).

Da ultimo, si afferma che il richiamo all’art. 317 del d. lgs. n. 14/2019, effettuato dai giudici di merito per sancire il principio di prevalenza del sequestro preventivo penale, è confutato dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto tale dato normativo deve essere letto nel complessivo quadro di riferimento, tenendo anche conto dell’art. 318, che è volto ad affermare la preminenza della procedura concorsuale, con la sola esclusione dell’ipotesi in cui il sequestro attenga a beni intrinsecamente pericolosi.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è stato trattato dalla terza sezione penale che lo ha deciso con la sentenza n. 5255/2023 (udienza del 3 novembre 2022).

…Presa d’atto dell’esistenza di un contrasto interpretativo e riassunzione dell’indirizzo che nega la legittimità del sequestro preventivo di beni già assoggettati ad una procedura fallimentare

Sul punto oggetto di censura, vi è un contrasto interpretativo, in quanto, secondo un orientamento condiviso anche da alcune pronunce della terza sezione, in tema di reati tributari, è illegittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis d. lgs. n. 74 del 2000, su beni già assoggettati alla procedura fallimentare, posto che il vincolo apposto a seguito della dichiarazione di fallimento importa lo spossessamento e il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito e l’attribuzione al curatore del compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (tra le tante, Sez. 3, n. 27706 del 24 giugno 2022, non mass.).

Si osserva che, ove si consideri che il vincolo apposto a seguito della dichiarazione di fallimento sul patrimonio della persona fisica o giuridica – che ne è la destinataria – importa lo spossessamento e il venir meno del potere di disporne, automaticamente trasferito, come previsto dall’art. 42, primo comma, legge fall., agli organi della procedura fallimentare, ne consegue che, a partire da tale momento, il curatore subentra ope legis nell’amministrazione della massa attiva nella prospettiva della sua conservazione ai fini della tutela dell’interesse dei creditori: costoro, invero, in virtù dell’ammissione al passivo, sono portatori di diritti alla conservazione dell’attivo, in vista della ripartizione finale del ricavato derivato dalla liquidazione del patrimonio del fallito, la cui amministrazione da parte del curatore, sotto la direzione del giudice delegato, è finalizzata a garantire la par condicio, attraverso la quale soltanto possono essere soddisfatti, nei limiti della capienza dell’attivo e nel rispetto delle legittime cause di prelazione, i crediti facenti capo ad ognuno.

Posto ciò, si afferma che il profilo squisitamente privatistico dell’insolvenza è, con l’apertura della procedura fallimentare, superato dai riflessi pubblicistici cui lo stesso procedimento, attraverso l’indisponibilità dei beni da parte del fallito, è sotteso, correlati alla necessità che il tracollo dell’impresa non si estenda indistintamente a quei soggetti che con questa abbiano avuto rapporti e, dunque, posti a salvaguardia delle esigenze economiche della collettività che, implicando la certezza del diritto, non ne consente l’assoggettabilità al vincolo penale per effetto del sequestro finalizzato alla confisca (cfr. Sez. 3, n. 26275 del 26/05/2022, non mass.; Sez. 3, n. 17750 del 17.12.2019, non mass.; Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Rv. 273951).

La canalizzazione nella procedura fallimentare della composizione della crisi di impresa, così come la espulsione dell’impresa dal mercato quando ne sia accertato lo stato di decozione, renderebbe evidente come l’interesse originario facente capo al singolo creditore resti, in ultima analisi, relegato in posizione di subalternità rispetto a quello pubblicistico che interviene, al fine di tutelare proprio il mercato, a regolamentarlo.

Ulteriormente, si sostiene che i beni facenti parte della massa fallimentare su cui la misura reale, avendo attinto le somme in giacenza sul conto corrente intestato alla curatela, è caduta, rappresentino un’entità a sé stante rispetto al patrimonio del fallito risulta evidente ove si consideri che in essa sono compresi non soltanto i beni facenti parte del patrimonio del fallito, ma altresì, atteso il potere di gestione e di amministrazione demandato alla curatela, i proventi derivati dall’esercizio del suddetto potere che, vuoi per effetto dell’esperimento fruttuoso di azioni revocatorie fallimentari, vuoi attraverso azioni di inefficacia dei pagamenti post-fallimentari, vuoi a seguito di attività strettamente liquidatorie e comunque di tutte le iniziative poste in essere dal curatore al fine di soddisfare le ragioni dei creditori concorsuali, vengono ad accrescere la massa attiva. Di nessuna rilevanza, pertanto, è che il fallito conservi sul suo patrimonio il diritto di proprietà atteso che questo, una volta disgiunto dal potere di gestione e di amministrazione conferito al curatore, resta congelato per tutta la pendenza della procedura fallimentare, fermo restando che, essendo la stessa finalizzata al soddisfacimento dei creditori previa liquidazione della massa fallimentare, è solo sull’eventuale residuo che il suddetto diritto spiega i suoi effetti, il che consente di definirlo come una proprietà vincolata al soddisfacimento dei creditori.

Si ritiene che tale conclusione sia stata, da ultimo, implicitamente fatta propria dalla sentenza delle Sezioni Unite, n. 45936 del 26/09/2019, Rv. 277257, laddove la stessa ha dato per acquisita l’esclusione della possibilità di eseguire il sequestro su beni appartenenti alla massa fallimentare e, quindi, in una situazione cronologica di posteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento, in quanto sui beni che si trovano in questa condizione si è ormai costituito un potere di fatto della curatela (Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Rv. 273951), «nei confronti della quale si realizzerebbe pertanto il presupposto della legittimazione all’impugnazione».

…Dubbi sulla fondatezza dell’indirizzo suddetto, riassunzione dell’orientamento che lo contrasta e preferenza accordata a quest’ultimo

Il richiamato orientamento giurisprudenziale è posto in dubbio da pronunce che hanno invece individuato in capo al fallito la titolarità dei beni sino al momento della vendita fallimentare (Sez. 3, n. 31921 del 04/05/2022, non mass.; Sez. 4, n. 864 del 03/12/2021, dep. 2022, Rv. 282567; Sez. 3, n. 3575 del 26/11/2021, dep. 2022, non mass.; Sez. 5, n. 52060 del 30/10/2019, Rv. 277753; Sez. 4, n. 7550 del 05/12/2018, dep. 2019, Rv. 275129).

Preliminarmente, questo diverso indirizzo ricorda come la giurisprudenza di legittimità, espressa dalle Sezioni civili della Corte, non abbia mai dubitato del fatto che la dichiarazione di fallimento di una società priva la stessa di ogni potere in relazione al suo patrimonio (eccezion fatta per i beni sottratti all’esecuzione concorsuale per disposizione di legge e per i beni sopravvenuti che non siano acquisiti dalla massa), ma non comporta di per sé alcuna alterazione della compagine sociale, i cui organi restano in funzione, sia pur con le limitazioni derivanti dall’intervenuta dichiarazione di fallimento, tant’è che, analogamente, la chiusura del fallimento fa venir meno lo “spossessamento” della società fallita, con il conseguente riacquisto da parte della stessa della libera disponibilità dei beni ma non comporta invece l’estinzione della società (Sez. 1, n. 9723 del 23/04/2010, Rv. 613181; Sez. 1, n. 11361 del 11/10/1999, Rv. 530561).

È perciò singolare che – pure al cospetto della perdurante esistenza di un ente che, avendo beneficiato di un risparmio fiscale, ha conservato i beni che costituiscono il profitto o il prezzo di un reato tributario – la società possa risultare giuridicamente affrancata dall’applicazione di una misura ablativa obbligatoria e conseguentemente dall’applicazione di misure prodromiche alla confisca.

Se il fallimento comporta lo spossessamento dei beni ma lascia inalterata la struttura dell’ente fallito, logico corollario di tale affermazione è che la società continua ad esistere come soggetto giuridico, suscettibile di essere sanzionato (nei casi in cui sia previsa una responsabilità dell’ente ai sensi della legge n. 231 del 2001) o di essere privato, ope legis, dei beni costituenti il profitto o il prezzo di un reato tributario; e così, pertanto, si spiegano le pronunce che giustificano la perdurante vigenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca riguardante una società fallita.

Ad ulteriore dimostrazione di ciò, oltre a quanto affermato dal collegio cautelare in conformità alla pronuncia di Sez. 3, n. 15776 del 2020 – che merita adesione – la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di rapporti tra sequestro preventivo e fallimento, è legittimo il sequestro preventivo dei beni ricompresi nell’attivo fallimentare, in quanto la deprivazione che il fallito subisce dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi (Sez. 5, n. 52060 del 30/10/2019, Rv. 277753).

L’orientamento che ammette la prevalenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12-bis, comma primo, del d. lgs. n. 74/2000, è stato anche ritenuto in materia di concordato preventivo, essendo stato affermato che la misura cautelare reale de qua prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della ammissione al concordato, attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, sul fondamentale rilievo che il rapporto tra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro, avente ad oggetto un bene di cui sia obbligatoria la confisca, deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull’interesse dei creditori l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente “pericoloso”, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato (Sez. 3, n. 28077 del 09/02/2017, Rv. 270333; Sez. 3, n. 23907 del 01/03/2016, Rv. 266940).

…Incidenza delle disposizioni del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza

Tale affermazione trova riscontro anche sulla base di alcune disposizioni incorporate nel d. lgs. n. 14/2019 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), dovendosi ricordare, sia pure con la precisazione che di esse è stata differita la vigenza, come, da un lato, in via generale, il codice della crisi d’impresa all’art. 320 preveda espressamente la legittimazione del curatore alle impugnazioni de libertate avverso il decreto di sequestro e le relative ordinanze, dall’altro, sancisca, all’art. 317, il principio di prevalenza delle misure cautelari reali e della disciplina della tutela dei terzi contenute nel libro I, titolo IV del d. lgs. n. 159/2011, rispetto alle procedure concorsuali, limitando però tale prevalenza alle sole ipotesi di sequestro preventivo penale strumentale alla confisca disposto ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. (tra cui rientrano, tra gli altri, i sequestri per reati fiscali) e, invece, escludendo, con alcune eccezioni, la prevalenza del sequestro preventivo penale “impeditivo” (art. 321, comma 1, cod. proc. pen.) e, in toto, del sequestro penale conservativo (art. 316 cod. proc. pen.) nonché stabilendo che i beni sequestrati all’impresa sottoposta a liquidazione giudiziale siano assoggettati alle disposizioni, anche procedimentali, previste per le confische di prevenzione, che estende a tutti i sequestri finalizzati alla confisca le disposizioni del codice antimafia.

Cosicché la nuova disciplina non sancisce una vera e propria soccombenza degli interessi creditizi al sequestro penale, posto che – in disparte le previsioni di cui agli artt. 318 e 319 del codice della crisi d’impresa, che già limitano l’ambito di operatività dei vincoli penali – gli artt. 63 e 64 del d. lgs. n. 159/2011 rinviano, inoltre, agli artt. 52 e ss. del codice antimafia ossia a disposizioni che consentono una pur parziale soddisfazione delle pretese del ceto creditorio in buona fede e con un titolo che cronologicamente preceda l’applicazione della misura cautelare reale.

Si può, pertanto, affermare che i rapporti tra le procedure concorsuali e le misure cautelari reali possono essere dedotti con interpretazione logico-sistematica, oltre che dalle norme già vigenti nell’ordinamento, anche dalla disciplina fissata dagli artt. 317 e ss. del d.lgs. n. 14/ 2019.

…Confutazione delle tesi della curatela ricorrente e considerazioni conclusive

Il ricorrente, nel caso di specie, contesta al tribunale del riesame di non aver preso posizione in conformità al diverso orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità alla luce del quale, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis, d. lgs. n. 74/2000, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento.

Ciò posto, sulla base degli argomenti precedentemente enunciati, il collegio condivide l’orientamento per cui è legittimo il sequestro preventivo dei beni ricompresi nell’attivo fallimentare, in quanto la deprivazione che il fallito subisce dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi (sul punto, Sez. 3, n. 31921 del 04/05/2022, non mass.; Sez. 3, n. 3575 del 26/11/2021, dep. 2022, non mass.; Sez. 5, n. 52060 del 30/10/2019, Rv. 277753; Sez. 4, n. 7550 del 05/12/2018, dep. 2019, Rv. 275129).

Da ultimo, si deve evidenziare che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007 e 322-ter cod. pen. non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Sez. U., n. 10561 del 30/01/2014, Rv. 258646); mentre la confisca del denaro o di beni fungibili può essere sempre disposta nei confronti della società, perché è una confisca diretta (Sez. U, n. 42415 del 27/05/2021, Rv. 282037; Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264434; Sez. U., n. 10561 del 30/01/2014, Rv. 258646).

Nel caso di specie, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca è stato disposto in via diretta nei confronti delle società T.A. SRL (denaro e beni fungibili) e per equivalente nei confronti dell’imputato (denaro e beni mobili e immobili).

Il curatore del fallimento ricorre sostenendo, da una parte, che il sequestro è stato eseguito dopo l’apertura del fallimento, e, dall’altra, che è stato compiuto non solo sul denaro ma anche su beni immobili della società. La difesa, però, non pone compiutamente la questione di diritto circa la sequestrabilità di beni della società, né individua compiutamente tali beni, né pone in discussione la corrispondenza tra il contenuto del decreto di sequestro e l’oggetto concretamente appreso dall’esecuzione del sequestro stesso.

Quanto al denaro presente nell’attivo fallimentare e oggetto di sequestro dopo il fallimento, va ribadito, in punto di diritto, che il denaro di una società, che si è avvantaggiata del reato, è sempre oggetto di confisca diretta, dovendosi sottolineare che la disposizione dell’art. 322-ter cod. proc. pen., nonché quella dell’art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000 impediscono la confisca diretta solo nel caso in cui il suo oggetto appartenga a persona estranea al reato. Ma non è questo il caso di specie, perché certamente non si può sostenere che la società, anche se fallita, sia estranea al reato, essendo – nella prospettazione accusatoria – il soggetto nell’interesse del quale i reati tributari contestati sono stati commessi, e avendo conseguito il corrispondente profitto. Il criterio applicabile per la confisca diretta non è, dunque, quello della disponibilità dei beni da parte del reo, ma il criterio, diverso e più ampio, della non estraneità rispetto al reato (Sez. 4, n. 864 del 03/12/2021, dep. 2022, Rv. 282567). E questa ricostruzione sistematica fa venire meno, in casi come quello di specie, la rilevanza dell’argomento, sostenuto dall’orientamento contrario all’ammissibilità del sequestro preordinato alla confisca, secondo cui questo sarebbe impedito dal fatto che il fallito ha perso la disponibilità del suo patrimonio. Deve infatti osservarsi che la disponibilità non è comunque il parametro che deve essere preso in considerazione.

Il ricorso è stato quindi rigettato per infondatezza.

Massime

È legittimo il sequestro preventivo dei beni ricompresi nell’attivo fallimentare, in quanto la deprivazione che il fallito subisce dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell’equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l’esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi.

Il denaro di una società, che si è avvantaggiata del reato, è sempre oggetto di confisca diretta, dovendosi sottolineare che la disposizione dell’art. 322-ter cod. proc. pen., nonché quella dell’art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000 impediscono la confisca diretta solo nel caso in cui il suo oggetto appartenga a persona estranea al reato.

Commento

La decisione esposta si pone in consapevole contrasto con decisioni di segno opposto, emesse peraltro da collegi della medesima sezione penale.

Il dissidio interpretativo implica effetti di notevole rilievo sulla sorte dei crediti ammessi al passivo fallimentare e, ancor prima, sulla gerarchia degli interessi allorché la pretesa erariale espressa attraverso il sequestro finalizzato alla confisca si incroci con quella privatistica dei creditori che fanno affidamento sui beni della massa fallimentare.

La scelta del collegio assegnatario del ricorso di arrivare alla decisione appare pertanto violare il chiarissimo disposto dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., laddove si afferma testualmente che “Se una sezione della corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite” e permette la protrazione di una condizione di incertezza interpretativa che contraddice il ruolo assegnato alla Suprema Corte.