Premessa
Una recente pronuncia della Suprema Corte, precisamente Cass. pen., Sez, 5^, sentenza n. 22215/2022 (camera di consiglio del 22 marzo 2022), contiene un’utile puntualizzazione dei più aggiornati orientamenti interpretativi attorno alla fattispecie di associazione a delinquere di tipo mafioso ed ai temi contigui.
È di particolare interesse e sarà qui privilegiato il percorso argomentativo che riguarda l’aggravante del reinvestimento, descritta dall’art. 416-bis, comma 6, cod. pen., e i suoi rapporti con i reati di intermediazione.
Se ne evidenziano pertanto i passaggi più significativi.
Il punto di partenza è identificabile nella decisione Iavarazzo (Sezioni unite, sentenza n. 25191/2014, Rv. 259589).
Le Sezioni unite hanno innanzitutto collocato il tema nell’ambito dei rapporti intercorrenti tra il delitto di reimpiego di cui all’art. 648-ter cod. pen. e quello di associazione di stampo mafioso, oggetto della questione controversa; ne hanno definito i termini nel senso che «L’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. ricorre quando gli associati cercano di penetrare in un determinato settore della vita economica e si pongono nelle condizioni di influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza, finanziando, in tutto o in parte, le attività con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti», rimarcando come l’aggravante in parola stabilisca «una precisa correlazione logico-causale tra le diverse finalità indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis cod. pen., colte nella loro proiezione dinamico-strutturale, essendo delineato un chiaro nesso funzionale tra la consumazione di delitti, la gestione di attività imprenditoriali, la realizzazione di vantaggi ingiusti, intesi o quale derivazione da attività economiche sanzionate come contravvenzione o quali aspetti complementari al controllo delle attività economiche».
Si è, ulteriormente, precisato che: l’apporto di capitale debba corrispondere ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose; il riferimento all’attività economiche è da intendere come intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano beni e servizi; la ratio di tale previsione è da ravvisare nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l’inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell’economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base, così concretizzando una più articolata e incisiva offesa degli interessi protetti.
Se ne è tratta la conseguenza, orientata dal dato letterale e dalla lettura logico-sistematica del comma sesto nel contesto complessivo dell’art. 416-bis cod. pen., da un lato che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, non è necessario che l’attività imprenditoriale mafiosa venga finanziata interamente con fondi provenienti da delitto e, dall’altro, che la previsione normativa si applica esclusivamente alle ipotesi di reimpiego in attività economiche e non in altre finalità programmatiche dell’associazione e, in particolare, quando il finanziamento di origine delittuosa interessi attività economiche di per sé penalmente illecite.
Dai questi tratti identitari, le Sezioni unite hanno coerentemente desunto la natura oggettiva dell’aggravante ad effetto speciale in parola, «poiché il perseguimento della finalità descritta nell’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. mediante i proventi dei delitti, costituisce una connotazione obiettiva dell’associazione e ne qualifica la pericolosità al pari del suo carattere armato»,sì da dover essere riferita all’attività dell’associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, non essendo necessario che il singolo associato s’interessi personalmente di finanziare, con i proventi dei delitti, le attività economiche, di cui i partecipi dell’associazione mafiosa intendano assumere o mantenere il controllo (Sez. 1, n. 4375 del 25/06/1996, Rv. 205497).
Infine, la natura oggettiva della circostanza aggravante comporta, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 59, secondo comma, cod. pen. (introdotto dalla legge del 7 febbraio 1990, n. 19), che essa sia valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio, sempre che essi siano stati a conoscenza dell’avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa, fermo restando che qualora sia, in concreto, accertata la normalità e frequenza del reimpiego di profitti delittuosi da parte di un determinato sodalizio di tipo mafioso, ciascuno dei membri del sodalizio mafioso deve considerarsi al corrente della relativa circostanza e deve, di regola, ritenersi ascrivibile a colpa l’eventuale ignoranza sul punto da parte di taluno dei componenti.
Allo stesso modo, la circostanza aggravante di cui si parla è stata ritenuta applicabile anche quando i proventi destinati all’assunzione o al mantenimento del controllo delle attività economiche derivino da delitti commessi da terzi che li affidino successivamente all’associazione mafiosa senza partecipare alla gestione del relativo programma, sicché quando l’associazione di stampo mafioso, fungendo da “impresa di riciclaggio” per conto di altre consimili organizzazioni, reimpiega i proventi conseguiti da queste ultime nelle proprie attività economiche formalmente lecite, la circostanza aggravante in esame viene, comunque, valutata a carico di tutti i membri del sodalizio mafioso nei termini e nei limiti indicati dagli artt. 70, primo comma, n. 1 e 59, secondo comma, cod. pen., mentre del delitto di reimpiego risponderanno i soli associati che abbiano direttamente svolto le attività di reimpiego. L’aggravante prevista dall’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. è configurabile nei confronti dell’associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego. Una conclusione del genere si fonda sull’interpretazione letterale dell’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., in cui sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi, e sulla ratio giustificatrice della disposizione, che rappresenta una sorta di “progressione criminosa” rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un’organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita.
In questa cornice, la decisione Iavarazzo ha anche affrontato il doveroso coordinamento sistematico tra l’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. e l’art. 648-ter cod. pen., escludendo che l’associato possa autonomamente rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola personale di esclusione della responsabilità contenuta nel reato disciplinato dall’art. 648-bis cod. pen. e avente valenza generale e – nel quadro normativo vigente – che l’associato possa essere chiamato a rispondere ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio.
Collocando l’analisi dell’aggravante in parole nel più ampio tema dei rapporti intercorrenti tra il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed i delitti di riciclaggio e reimpiego, le Sezioni unite hanno, dunque, consegnato all’interprete precise coordinate di riferimento.
E siffatta ricostruzione resiste – ed anzi si rafforza – anche alla luce del sopravvenuto art. 648-ter.1,inserito nel codice penale con L. 186/2014.
La nuova incriminazione (tra le tante: Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Rv. 272652) è stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali assunti dall’Italia, essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare la lacuna riguardante l’irrilevanza penale delle condotte di c.d. “auto riciclaggio”, poste in essere dal soggetto autore o concorrente in determinati reati presupposto, che il legislatore ha ritenuto di individuare nei soli delitti non colposi (art. 648-ter.1, comma 1, cod. pen.), come previsto anche in tema di riciclaggio (ma diversamente rispetto a quanto previsto in tema di ricettazione e reimpiego, che menzionano come reati-presupposto i delitti tout court.
Invero, mentre il riciclaggio penalmente rilevante (art. 648-bis cod. pen.) ed il reimpiego di danaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (art. 648-ter cod. pen.), quali ipotesi particolari di ricettazione (art. 648 cod. pen.), avevano ed hanno, come presupposto, l’esclusione della configurabilità del concorso dell’agente nel reato da cui il denaro, i beni e le utilità ricettate, riciclate o reimpiegate derivano, il delitto di autoriciclaggio si affranca dalla “clausola di esclusione” e concorre con il delitto associativo presupposto (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Rv. 282626).
Ne discende che l’autoriciclaggio concorre con il reato associativo, sempre che sia specificamente dimostrata la condotta tipica, e non esclude l’aggravante in parola, la cui fisionomia resta quella tracciata dalle Sezioni unite.
Sulla scia di tali principi, la successiva elaborazione giurisprudenziale ha – solo – precisato il tratto dimensionale dell’aggravante, postulando che la condotta sia volta a penetrare in un determinato settore della vita economica, influendo sulle regole della concorrenza attraverso il finanziamento delle attività con il prezzo, il prodotto o i profitti di delitti, in modo da prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono analoghi beni o servizi (Sez. 6, n. 4115 del 27/06/2019, dep. 2020); ribadendone la natura oggettiva, in quanto riferita all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe, occorrendo sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Rv. 278796: in applicazione del principio, la Corte ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l’aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento; Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Rv. 277653); precisando che si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto ad imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall’impresa mafiosa, che si giova dell’imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall’acquisizione dell’attività commerciale altrui, ed il reimpiego si attua attraverso l’investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Rv. 275586).
La linea interpretativa costante proposta dalla giurisprudenza di legittimità ha affermato la necessaria pertinenza dell’attività economica oggetto di reinvestimento all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe, il quale ne risponde per il solo fatto di essere associato, dato che, appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che “cosa nostra” opera nel campo economico, utilizzando ed investendo i profitti di delitti che pone in essere in esecuzione del suo programma criminoso, non è configurabile l’ignoranza di tali circostanze in capo ad un soggetto che ne faccia parte da affiliato (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Rv. 281463; Sez. 1, n. 51160, del 9/5/2018, in motivazione pag. 34 e SS.; Sez. 6, n. 44667 del 12/05/2016, Rv. 268677 in motivazione; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Rv. 261334).
Per contro, né dalla sentenza Iavarazzo, né dall’elaborazione ermeneutica successiva è dato rinvenire il requisito della specifica dimostrazione della fonte di ricchezza illecita reimpiegata nel circuito lecito dell’economia, su cui – come visto – fonda la ratio dell’aggravante in parola, assicurandone la conformità al canone costituzionale della proporzione sanzionatoria.
Esigere la prova della fonte delle risorse, di origine illecita, immesse nel circuito dell’economia implicherebbe, allora, null’altro che la prova degli autonomi delitti di cui autoriciclaggio e di trasferimento di valori – che con il delitto associativo possono concorrere – e la sostanziale dissoluzione dell’aggravante.
Da tale linea non si discosta l’orientamento espresso da Sez. 2, n. 34615 del 10/06/2021, Rv. 281961, non massimata sul punto, che – richiamando i principi consolidati sul tema – ha reputato, nello specifico caso sottoposto a scrutinio, non adeguato lo standard dimostrativo circa la provenienza dal sodalizio dei proventi investiti nelle singole attività economiche e, in altri termini, la prova del flusso “da sommerso ad emerso”, oggetto di contestazione.
Ribadendo che ai fini della configurabilità dell’aggravante occorre sia un intervento economico in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, 9108/2019, cit.; Sez. 5, n. 49334, del 5/11/2019, Rv, 277653; Sez. 6, n. 4115, del 27/6/2019, Rv. 278325), la sentenza citata ha escluso che nelle specifiche vicende economiche disaminate fosse ravvisabile un’apprezzabile alterazione delle regole che governano l’economia, la concorrenza ed i corretti rapporti commerciali e, in sintesi, l’impiego in settori dell’economia lecita dei proventi mafiosi.
Nella stessa pronuncia non è dato, invece, rinvenire alcun principio che correli la prova della sussistenza dell’aggravante alla specifica dimostrazione della fonte di ricchezza reimpiegata.
In ogni caso, va ulteriormente sottolineata la funzione, indubbiamente selettiva, che svolge l’orientamento teleologico della condotta associativa, declinato nel terzo comma dell’art. 416-bis cod. pen. poiché, in quanto oggetto del dolo specifico, le finalità dell’associazione non richiedono la dimostrazione della loro effettiva realizzazione; funzione, all’evidenza, del tutto diversa dalla ratio dell’aggravante sin qui disaminata.
Massima
Ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen. – che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferita all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe – occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo.
