Termine a difesa per il difensore d’ufficio: non è un diritto insindacabile e il giudice può negarlo o concederlo in misura inferiore al minimo (di Vincenzo Giglio)

Una recentissima decisione della Suprema Corte, precisamente Cass. pen., Sez. 6^, sentenza n. 44/2023 (udienza del 25 ottobre 2022), ridimensiona l’assolutezza del diritto del difensore d’ufficio ad un termine a difesa, attribuendo al giudice la facoltà di negarlo  o riconoscerlo in misura inferiore al minimo previsto laddove rilevi l’esistenza di strategie dilatorie che violino i doveri di lealtà e correttezza che devono caratterizzare l’esercizio del mandato difensivo.

Questione di fatto

Il difensore di GC ricorre contro la sentenza della Corte territoriale che ha confermato la responsabilità dell’imputato per il delitto di calunnia e la sua condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Tra i numerosi motivi di ricorso ve ne è uno che assume l’esistenza di una violazione del diritto di difesa per avere il giudice di primo grado nominato in udienza, quale difensore d’ufficio, lo stesso avvocato già nominato di fiducia dall’imputato ma, appena prima, revocato dallo stesso ed espressamente da lui diffidato dal proseguire nell’attività difensiva; nonché per avere il medesimo giudice negato un termine a difesa.

Deduce a tal fine il ricorrente che il venir meno del rapporto fiduciario con l’imputato preclude l’investitura d’ufficio del difensore; che l’avvocato non apparteneva al Foro del luogo ove era celebrato il giudizio; che non v’erano ragioni d’indifferibilità dell’attività d’udienza, in effetti non indicate né dal primo giudice, né nella sentenza impugnata; che il termine a difesa non era un espediente dilatorio, bensì un’esigenza indispensabile, proprio in considerazione del dissidio venutosi a creare tra l’imputato e l’avvocato.

Decisione della Corte di cassazione

Il collegio ha osservato preliminarmente che la nomina d’ufficio dell’avvocato già nominato di fiducia dall’imputato è intervenuta a seguito della revoca in udienza del mandato difensivo, e quindi a norma dell’art. 97, comma 1, cod. proc. pen. e non quale sostituto immediatamente reperibile nella temporanea assenza del difensore titolare, ai sensi del successivo comma 4 della stessa disposizione di legge.

Ha quindi ribadito la legittimità, in linea generale, della designazione come difensore d’ufficio del medesimo legale già investito di un mandato fiduciario venuto meno, trattandosi di un principio già affermato, tra altre, già da Sez. 1, n. 4036 del 27/03/1996, Rv. 204213, per l’ipotesi di rinuncia al mandato da parte del difensore, ma applicabile anche all’ipotesi della revoca di tale incarico, essendo comune il dato qualificante, ovvero il venir meno del rapporto fiduciario avvocato-imputato.

Ha riconosciuto che esiste un unico limite a tale prassi e va individuato nell’esistenza, in concreto, di una situazione d’incompatibilità idonea a pregiudicare l’utile esercizio della difesa, situazione che, però, dev’essere rappresentata dal difensore e vagliata dal giudice (Sez. 3, n. 8152 del 29/01/2004, Rv. 227513).

Il collegio ha ulteriormente affermato il principio per cui, in caso di nomina del difensore di ufficio, non configura alcuna nullità la mancata iscrizione dell’avvocato nominato nell’apposito elenco dei difensori di ufficio, non essendo tale sanzione prevista espressamente dalla norma (per tutte: Sez. 3, n. 14742 del 18/02/2004, Rv. 228528); ciò che vale, a maggior ragione, allorché il difensore officiato dal giudice sia iscritto nell’elenco di cui all’art. 97, comma 2, cod. proc. pen., di un distretto di Corte d’appello diverso da quello in cui si sta svolgendo il processo (Sez. 1, n. 43816 del 04/10/2017, dep. 2018, Rv. 274533).

Stabilite queste coordinate generali, i giudici di legittimità hanno ritenuto che il termine a difesa non è oggetto di un diritto insindacabile dell’avvocato nominato d’ufficio, potendo il giudice negarlo, oppure riconoscerlo in misura inferiore al minimo previsto dall’art. 108, cod. proc. pen., quando la relativa richiesta non risponda, in concreto, ad alcuna esigenza difensiva e si presenti come un espediente per procrastinare la definizione del procedimento, in violazione dei doveri di lealtà e correttezza che devono orientare l’esercizio del mandato difensivo e delle facoltà processuali (in simili termini, tra diverse altre, Sez. 5, n. 23884 del 01/03/2019, Rv. 277244; Sez. 2, n. 12306 del 15/03/2016, Rv. 266772).

Nel caso specifico, la sentenza spiega in modo adeguato le ragioni per le quali la revoca del difensore di fiducia da parte del ricorrente non sia stata determinata dal venir meno del rapporto fiduciario verso quel professionista, bensì da intenti meramente polemici e pretestuosi, quale forma di manifestazione di un più generale comportamento fortemente ostruzionistico, da lui tenuto nel corso dell’intero processo. Di tanto, peraltro, si trae logica conferma dal fatto che – come si legge in sentenza – quel difensore ha continuato ad assisterlo anche nel processo d’appello, pur sempre in virtù della nomina d’ufficio, ma avanzando specifiche richieste istruttorie e non limitandosi ad una presenza inattiva, e perciò rendendo manifesto il perdurare del rapporto professionale che lo legava a lui. Peraltro, come la Corte d’appello plausibilmente osserva, la scelta della nomina officiosa in favore dell’avvocato già di fiducia, avendo quest’ultimo piena conoscenza degli atti processuali, non solo si presentava come la più idonea a garantire una difesa effettiva dell’imputato, ma altresì rendeva del tutto inutile la concessione di un termine a difesa non inferiore a sette giorni (a norma del citato art. 108, comma 1), e dunque puramente pretestuosa la relativa richiesta. E, per confutare tale argomentare, il ricorso non va oltre la generica evocazione di un dissidio tra imputato ed avvocato, non confortata da specifiche allegazioni, ma anzi logicamente smentita dalla prosecuzione dell’attività difensiva di quel professionista anche nel grado successivo del giudizio.

Il motivo di ricorso è stato conseguentemente rigettato.

Massima

La legittimità della designazione come difensore d’ufficio, a norma dell’art. 97, comma 1, c.p.p., del medesimo legale già investito di un mandato fiduciario poi venuto meno, ha l’unico limite dell’eventuale presenza di una situazione d’incompatibilità idonea a pregiudicare l’utile esercizio della difesa (situazione che dev’essere rappresentata dal difensore e vagliata dal giudice).

Il termine a difesa non è oggetto di un diritto insindacabile dell’avvocato nominato d’ufficio, potendo il giudice negarlo, oppure riconoscerlo in misura inferiore al minimo previsto dall’art. 108, c.p.p., quando la relativa richiesta non risponda, in concreto, ad alcuna esigenza difensiva e si presenti come un espediente per procrastinare la definizione del procedimento, in violazione dei doveri di lealtà e correttezza che devono orientare l’esercizio del mandato difensivo e delle facoltà processuali.

Commento

La decisione qui commentata ha due caratteristiche degne di nota.

La prima, condivisa con le sentenze di merito che l’hanno preceduta, risiede nella reattività ad un atteggiamento sistematico del ricorrente (cui è stato associato il difensore), al quale è stata attribuita una valenza strategica finalizzata ad ostacolare in ogni modo la celebrazione e la definizione del giudizio.

La seconda, strettamente connessa alla prima, è la valorizzazione del concetto di abuso del processo cui si accompagna lo stigma per il difensore, reo di avere violato i doveri di lealtà e correttezza che è tenuto ad osservare nell’esercizio della sua funzione.

La soluzione giuridica che ne è derivata è alquanto discutibile.

L’apprezzabile tensione del giudice verso il compimento del suo compito essenziale, quello di rendere giustizia, non dovrebbe infatti prescindere dal rispetto di garanzie difensive essenziali né bypassarle ricorrendo ad argomenti insidiosi.

Il nodo cruciale è la nozione di abuso del processo, in questo caso nella specifica declinazione dell’abuso dei diritti difensivi.

Il diritto abusato secondo i giudici di merito e di legittimità è quello riconosciuto dall’art. 108, comma 1, c.p.p., al difensore d’ufficio che ne fa richiesta dopo la revoca di quello di fiducia.

Il caso in esame ha un’indubbia particolarità, data dal fatto che, per scelta del tribunale, il difensore d’ufficio è la stessa persona fisica che ha rivestito il ruolo del difensore di fiducia revocato.

È abbastanza evidente che la sua designazione è servita a creare una condizione di fatto che consentisse al tribunale di evitare la lungaggine che ci sarebbe certamente stata se fosse stato individuato un diverso difensore d’ufficio e se questi, come prevedibile, avesse chiesto un termine a difesa.

È stata una scelta opportuna? La Cassazione dice di sì, che è perfettamente legittima con l’unica eccezione dell’esistenza di una situazione di incompatibilità che deve essere esplicitata dall’imputato.

Se ne prende atto ma si osserva che tale obbligo esplicativo non è normativamente previsto sicché il rilevo essenziale che gli viene riconosciuto è una pura creazione giurisprudenziale.

Una creazione alla quale, come si è visto, segue una preclusione: se il difensore d’ufficio designato è anche l’ex difensore di fiducia revocato, non gli spetta il termine a difesa.

Una preclusione anch’essa non prevista normativamente e comunque fondata su una presunzione: chi è stato difensore di fiducia conosce gli atti e, se cambia la sua veste, non ha bisogno di un termine per studiare quello che già sa.

Sarebbe facile argomentare che questa presunzione potrebbe non corrispondere al vero, ad esempio nei casi in cui la revoca del difensore avvenga proprio per la sua negligenza nella preparazione della difesa, ma non è questo il punto essenziale che invece risiede nell’inopportunità di servirsi di presunzioni non previste normativamente e, soprattutto, fondate su una nozione, quella di abuso del diritto, che per plurime ragioni non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nell’ambito penalistico.

È noto che questa nozione, cui si attribuisce il significato di uso di una situazione giuridica soggettiva attiva ad opera del suo titolare per un fine diverso da quello per cui è stata prevista e tutelata dall’ordinamento (cosiddetto abuso funzionale), benché non codificata, ha attecchito in ambito civilistico per via giurisprudenziale. Ove ricorra, l’abuso è sanzionato negando efficacia e tutela allo schema che ne è frutto: un esempio è la valorizzazione della exceptio doli generalis seu praesentis nei contratti autonomi di garanzia allorché la garanzia sia escussa da parte del suo beneficiario con dolo, mala fede o abuso.

La questione si pone ben diversamente in ambito penale per il suo inevitabile incrocio con il principio costituzionale e convenzionale di legalità (artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU).

Il necessario punto di partenza è l’inesistenza di una norma positiva che configuri l’abuso del diritto come una clausola generale sull’ovvio presupposto che una norma del genere, se esistente, consegnerebbe al giudice un indebito potere creativo tale da frustrare il principio di determinatezza.

Né, in senso contrario, può trarsi spunto dai numerosi casi in cui il legislatore penale utilizza espressioni come “abuso” o “abusivamente” nella descrizione di una fattispecie.

A ben vedere, infatti, essi attengono a situazioni il cui presupposto è ordinariamente non l’uso deviato di un diritto ma la sua mancanza (esercizio abusivo di una professione, reati edilizi e paesaggistici) o l’approfittamento indebito di una situazione di prossimità ad individui vulnerabili o collettività suggestionabili (circonvenzione di incapace, abuso della credulità popolare).

Esistono per contro istituti esplicitamente finalizzati a reprimere condotte elusive come avviene, ad esempio, con la confisca per equivalente il cui presupposto è l’impedimento di condotte che consentirebbero al soggetto agente di conservare il godimento del prodotto, profitto o prezzo del reato. Ma è proprio la loro esistenza che dimostra la necessità di una previsione legislativa ed è la loro settorialità che evidenzia l’impossibilità di ricavarne per via interpretativa una clausola generale.

Una conferma in tal senso arriva dall’introduzione, dovuta al D.Lgs. n. 128/2015, dell’art. 10-bis nel corpo della L. n. 212/2000 (il cosiddetto Statuto del contribuente).

Il nuovo articolo ha unificato le nozioni di abuso del diritto e di elusione fiscale (comma 1) e ha sancito espressamente l’irrilevanza penale delle condotte abusive che dunque potranno essere sanzionate solo amministrativamente (comma 13).

Nasce in tal modo una nuova configurazione dell’abuso del diritto che si estende a tutta la materia tributaria. Per l’effetto, sono considerate compiute con abuso le operazioni prive di sostanza economica, tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti e prive di valide ragioni extrafiscali che soddisfino esigenze di miglioramento strutturale o funzionale.

In conclusione, pur dovendosi ammettere che l’abuso del diritto non sia affatto estraneo al legislatore penale ed anzi sia considerato un fenomeno da contrastare in taluni casi con adeguate tutele, è al tempo stesso innegabile che il suo ambito applicativo è ristretto a casi specifici la cui individuazione è necessariamente rimessa al legislatore.

Né, come sembra voler accreditare la decisione in commento e anche a prescindere da quanto fin qui rilevato, sembrano possibili interpretazioni orientate alla prevenzione dal rischio dell’abuso del diritto.

L’unica giustificazione plausibile di questa tesi sarebbe il richiamo al criterio interpretativo della ratio legis contenuto nell’art. 12 delle Preleggi e dunque alla necessità di attribuire alla norma interpretata il significato che meglio salvaguarda l’intenzione del legislatore.

Un’operazione del genere comporterebbe tuttavia la violazione del divieto di analogia in malam partem sancito dall’art. 14 delle Preleggi.

Sembra quindi decisamente inappropriato che il giudice adatti l’interpretazione all’esigenza di impedire l’abuso del diritto.