Prova testimoniale: la cassazione indica i canoni valutativi (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 6 con la sentenza numero 1599 depositata il 17 gennaio indica i criteri indispensabili per una corretta valutazione della prova testimoniale.

Fatto

Il ricorrente è stato condannato sulla base delle dichiarazioni della parte civile (un avvocato) ritenute “instabili” e sulla base della testimonianza di un cliente dell’avvocato che sarebbe stato presente nello studio di quest’ultimo al momento del fatto.

Decisione

La Suprema Corte premette che sia il legislatore del 1930, sia il legislatore repubblicano hanno dedicato scarsissima attenzione alla definizione del valore processuale delle singole fonti di prova, rifiutando il sistema della prova legale a favore di un sistema fondato sul c.d. libero convincimento del giudice, principio che ha trovato esplicita formulazione negli artt.192, comma 1, 189 e 193 cod. proc. pen.

Ogniqualvolta il legislatore ha posto dei limiti al principio del libero convincimento del giudice, ciò ha fatto non tanto imponendogli un risultato conoscitivo quanto, piuttosto, proibendogliene uno, considerato potenzialmente errato.

Si può quindi affermare che il legislatore in talune ipotesi ha autorizzato il Giudice a ritenere provato un determinato fatto solo perché rappresentatogli da un unico mezzo di prova, e purché non sussistano ragioni che consiglino di svalutarne il valore.

Tale è appunto l’ipotesi della testimonianza che, come si afferma, “fa prova sino a prova contraria“. Il fondamento di tale assetto è rinvenibile non solo nella riconosciuta generale capacità a testimoniare, ma soprattutto in un complesso di regole di esperienze ritenute astrattamente valide ed affidabili.

La prima di tali regole è quella della normale terzietà del teste; la seconda è invece, desumibile dal riconoscimento anche alla persona offesa della possibilità di testimoniare dato che, evidentemente, essa non viene considerata come portatrice di un interesse di per sé inquinante.

Ciò è possibile in forza di un ulteriore presunzione, e cioè che, di solito, chi comunica a terzi un fatto, dice la verità (principio di affidabilità, sul quale si fonda la normale vita di relazione) e che mente solo se a tanto abbia sufficiente interesse (principio di normalità), e ciò specialmente se dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità).

Tali considerazioni spiegano allora perché la presunzione di attendibilità della testimonianza sia solamente generica e “Juris tantum“, in quanto suscettibile di prova contraria, sottoposta al prudente apprezzamento del giudice all’esito della verifica che questi avrà effettuato della stessa.

Verifica che, non necessitando di elementi di riscontro esterni, potrà essere limitata all’esame dell’attendibilità intrinseca della deposizione.

Necessario e sufficiente sarà perciò che, in omaggio ai su riferiti principi di affidabilità, normalità e responsabilità, la deposizione sia resa da persona realmente terza rispetto alle parti, della quale non possa affermarsi alcun apprezzabile interesse a mentire e che sia stata resa edotta delle responsabilità conseguenti all’ipotesi di un eventuale mendacio.

In omaggio ai criteri c.d. della linearità e della completezza, ciò che deve essere verificato è che la deposizione sia internamente logica e coerente, priva di contraddizioni e che non sia in inspiegabile contrasto con altre deposizioni testimoniali parimenti attendibili o con elementi “aliunde” accertati con i caratteri della certezza.

La testimonianza deve essere, inoltre, dotata di adeguata capacità dimostrativa del fatto da provare e questa sarà tanto maggiore quanto meglio il teste sia stato in grado di rappresentare il fatto e quanto più l’oggetto della deposizione sia “significativo” di ciò che con la testimonianza si intende provare. Infine, giova sicuramente all’attendibilità della testimonianza la circostanza che il fatto sia analiticamente esposto, attesa la regola di esperienza che insegna che la menzogna è genericamente lacunosa ed incompleta, per l’impossibilità di attribuire ad un fatto inventato la ricchezza di particolari che sono propri, invece, degli accadimenti reali.

Se così è, allora appare altresì chiaro che la garanzia della legittimità della verifica appena descritta è costituita dal contraddittorio delle parti nell’assunzione della prova: quanto più è pieno il contraddittorio, tanto più completa ed affidabile potrà ritenersi la suddetta verifica.

Nel caso esaminato, la Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati.

In presenza di dichiarazioni della parte civile ritenute dalla stessa Corte instabili, questa aveva correttamente espresso l’esigenza di valutare con rigore le ulteriori risultanze processuali.

E tuttavia, al di là della declinazione del principio, la Corte ha poi confermato la sentenza di condanna sulla base di una valutazione della deposizione del teste E.N. obiettivamente sincopata e sbrigativa.

Si tratta di una deposizione rispetto alla quale nulla è stato verificato in ordine alla attendibilità soggettiva del dichiarante, ai rapporti che questi aveva con l’avv. G., alla ragione specifica per la quale E.N. fosse allo studio dell’avvocato, quale fosse l’incarico che G. seguiva, e se, in particolare, il dichiarante fosse portatore di un interesse inquinante.

Non diversamente, al di là di qualche espressione assertiva, nulla è stato spiegato quanto alla attendibilità intrinseca del dichiarato, sulle ragioni per cui un cliente di un avvocato dovesse entrare nella stanza di questi mentre questi riceveva un altro cliente, sul dove si trovasse il testimone all’interno dello studio, sul se ci fossero altri clienti che assistettero a ciò che stava accadendo, sul come mai, se la situazione fosse stata così grave, gli altri collaboratori dello studio non intervennero, sul perché la dott.ssa D. G., che era all’interno della stanza e che non ha riferito di aver assistito a comportamenti minacciosi, nulla fece, non uscì per chiedere di intervenire in quella situazione di pericolo che si era sviluppata.

Una deposizione, quella posta a fondamento della sentenza di condanna, di una limitata capacità dimostrativa dei fatti rappresentati, fondata su pochissime affermazioni accusatorie, ma scarsamente descrittiva di ciò che accadde in concreto, rispetto alla quale non è stata compiuta nessuna valutazione e nessuna comparazione con le altre risultanze istruttorie.

Una ricostruzione dei fatti incompleta, meritevole di importanti approfondimenti.