
Premessa
Una recente decisione della Suprema Corte, precisamente Cass. pen., Sez. 5^, sentenza n. 37911/2022 (udienza del 20 luglio 2022), consente di verificare lo stato dell’arte giurisprudenziale sulle condizioni solo in presenza delle quali è legittima l’esportazione dei risultati delle intercettazioni dal procedimento nel quale sono state disposte ed acquisite ad altri diversi.
Se ne riporteranno, pertanto – letteralmente quando occorre – i passaggi essenziali, divisi per temi.
Criteri per la distinzione tra medesimo procedimento e diverso procedimento: i chiarimenti delle Sezioni unite Cavallo
La questione che il ricorso impone, prioritariamente, di affrontare investe il rapporto tra i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate e le fattispecie per cui si procede e, conseguentemente, se si verta in ipotesi di utilizzazione dei risultati intercettativi nello stesso o in diverso procedimento.
Alla soluzione di siffatti quesiti consegue l’individuazione della disciplina applicabile ratione temporis nel presente procedimento.
Nella ricostruzione sistematica resa dalle Sezioni unite Cavallo, nel quadro dei principi costituzionali di riferimento, l’identificazione del rapporto tra il reato in relazione al quale l’autorizzazione all’intercettazione è stata emessa e il reato emerso grazie ai risultati di tale intercettazione è stata, come noto, risolta nei termini di un legame sostanziale, individuato nella connessione di cui all’art. 12 cod. proc. pen., poiché solo un vincolo qualificato è in grado di attrarre quest’ultimo reato nel fuoco del provvedimento autorizzatorio e, dunque, si rivela idoneo ad assicurare la salvaguardia delle garanzie delineate dall’art. 15 Cost., che vieta forme indebite di “autorizzazioni in bianco” e l’elusione dei divieti posti dalla legge.
Richiamando il sostrato identitario del vincolo di connessione delineato dalla predetta norma, che finisce per selezionare i «procedimenti tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri» e, dunque, a disegnare un rapporto di necessaria continenza fattuale, le Sezioni unite hanno concluso come «in caso di imputazioni connesse ex 12 cod. proc. pen….. il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione. La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale – e non meramente processuale – tra i diversi fatti reato consente di ricondurre ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell’intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale tra essi, infatti, esclude che l’autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un’autorizzazione in bianco”. Soluzione, questa, che, d’altra parte, consente di attribuire al sintagma “procedimenti diversi” un significato coerente con i differenti riferimenti normativi ora, appunto, ai procedimenti (art. 270, comma 1, cod. proc. pen.), ora ai reati (art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen., cosi come formulato alla data della deliberazione della presente sentenza) impiegati dal legislatore nella specifica disciplina delle intercettazioni».
Alla luce di questa conclusione, le stesse Sezioni unite hanno coerentemente escluso che il criterio basato sul collegamento investigativo di cui all’art. 371 cod. proc. pen. (fuori dei casi di connessione, naturalmente), sia idoneo ad attrarre nella latitudine del decreto autorizzativo genetico ulteriori fatti, emersi per via intercettativa, in quanto il collegamento ivi previsto, che risponde ad esigenze di efficace conduzione delle indagini, non presuppone quel necessario legame, originario e sostanziale che, come si è visto, consente invece di ricondurre anche il reato oggetto del procedimento connesso ex art. 12 cod. proc. pen. all’originaria autorizzazione. E si è precisato che, con specifico riguardo alle prime due ipotesi della disposizione, si tratta di relazioni intercorrenti non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l’autorizzazione e quello messo in luce dall’intercettazione, ma tra le “conseguenze” del primo e il secondo, ovvero di relazioni che si risolvono in una mera “occasionalità” tra la commissione dell’uno e dell’altro: «l’intrinseca natura delle relazioni presupposte dalle figure di collegamento in esame e le univoche indicazioni sistematiche offerte dal legislatore del 2001 convergono nell’escludere che dette figure diano corpo a quel «legame oggettivo» tra i reati necessario per assicurare la riconducibilità del “nuovo” reato all’autorizzazione giudiziale, così da non eludere la garanzia costituzionale della motivazione del provvedimento autorizzatorio. Rilievo, questo, valido a fortiori per le altre figure di collegamento delineate dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 271 cod. proc. pen., considerate fin dalla formulazione originaria della disposizione codícistica nella sola prospettiva dell’efficace conduzione delle indagini».
In altri termini, le Sezioni unite Cavallo hanno affermato che il divieto probatorio di utilizzabilità di intercettazioni in relazione a reati diversi da quelli in relazione ai quali l’autorizzazione del giudice è stata adottata, è destinato ad operare in presenza di un rapporto tra i reati riconducibile – fuori dai casi di connessione – alle ipotesi di collegamento tra indagini, che esprime «un collegamento di tipo probatorio tra reato a quo, per il quale è stata disposta l’intercettazione, e reato ad quem, accertato grazie ai risultati di tale intercettazione, e non su quel legame originario e sostanziale necessario a ricondurre anche il secondo al provvedimento autorizzatorio e, quindi, ad escludere l’operatività del divieto probatorio di cui all’art. 270 cod. proc. pen».
La nozione di stesso procedimento così delineata, in termini di sussistenza di un legame sostanziale e “forte” tra i reati, consegna all’interprete il criterio discretivo necessario ad escludere il divieto, posto dall’art. 270 cod. proc. pen., alla esportabilità – o all’ultrattività – del materiale intercettativo, e a verificarne le deroghe, sul terreno dei rapporti tra il reato oggetto del provvedimento autorizzativo ed il reato per il quale il mezzo di prova vuol essere utilizzato. Il che impone – nel caso al vaglio – di verificare la relazione tra le fattispecie poste a fondamento della richiesta di autorizzazione alle captazioni ed il reato per cui si procede.
L’identificazione del sostrato ontologico del reato associativo che qui rileva è, all’evidenza, definito dai reati scopo alla cui realizzazione è finalizzato il sodalizio. Il tema investe, dunque, i rapporti tra l’associazione per delinquere finalizzata alla consumazione di reati contro la pubblica amministrazione (originariamente ipotizzata ed alla quale le intercettazioni autorizzate si riferiscono) e l’associazione avente come scopo, invece, fatti di corruzione tra privati, per cui si procede; rapporti risolti, nell’ordinanza impugnata, in termini di idem factum.
Nozione di idem factum
Nel solco dell’insegnamento delle Sezioni unite (n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
La Corte Costituzionale (n. 200 del 31/5/2016) ha, a sua volta, ulteriormente ribadito, nel quadro della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come la medesimezza del fatto vada apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie, ed a condizione che, nell’applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, in tal modo evitandosi che la valutazione comparativa tra fattispecie – cui è chiamato il giudice – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all’interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i singoli reati.
Siffatti principi, enunciati in tema di bis in idem ma espressivi di valori fondamentali dell’ordinamento, si rivelano idonei ad orientare l’interprete anche nella verifica dei rapporti tra fattispecie quando – come nel caso in esame – dalla soluzione del tema dell’unità o pluralità di reati dipenda l’applicazione di norme processuali.
Applicazione delle coordinate teoriche al caso concreto
Nel delineato contesto, la valutazione comparativa svolta dal tribunale per il riesame delle fattispecie coinvolte nella verifica, in termini di idem factum, non si rivela corretta.
L’associazione per delinquere oggetto di iniziale iscrizione nel proc. R.G.N.R. x/2019 è stata esclusivamente connotata, in linea con la notitia criminis più volte richiamata dal Tribunale, dalla finalizzazione alla consumazione di reati contro la pubblica amministrazione e, specificamente, dei delitti di corruzione, per i quali sono state autorizzate le intercettazioni. Dal testo del provvedimento impugnato, risulta altresì enunciata una compagine soggettiva coinvolta organicamente nel sistema S.
Dalla richiesta e dai provvedimenti di autorizzazione e proroga delle intercettazioni autorizzate non è dato evincere, ex ante, l’inclusione nel programma associativo, geneticamente ipotizzato, di una pluralità finalistica, atta a ricomprendere reati diversi da quelli ivi delineati.
Il reato associativo qui contestato si caratterizza, invece – oltre che per una delimitazione soggettiva che non risulta sovrapponibile alla composizione della compagine, originariamente ipotizzata – per l’esclusiva finalizzazione alla consumazione di plurimi reati di cui all’art. 2635 cod. civ., evocando un’ambientazione in fatto che non evidenzia alcuna affinità con il reato originariamente ipotizzato.
In tal modo, ed alla stregua della stessa formulazione dell’imputazione provvisoria, il reato associativo finisce per delineare una struttura del tutto nuova ed autonoma rispetto a quella originariamente ipotizzata, scaturita da un diverso patto criminale e, per quanto consta, emersa attraverso i risultati captativi di cui si discute.
Il nucleo fattuale unitario enunciato dal Tribunale si rivela, pertanto, inidoneo a dimostrare un vincolo di connessione per identità tra i diversi reati associativi, rilevante nei termini qui in rassegna.
Il Tribunale non ha, peraltro, argomentato riguardo l’esistenza di altro vincolo di connessione qualificata tra il fatto associativo per cui si procede ed i reati oggetto di originaria iscrizione, qui non contestati e, dunque, sottratti ad ogni verifica estrinseca di interferenza fattuale, rilevante ex art. 12 cod. proc. pen..
Per contro, l’ordinanza impugnata ha escluso che il reato di corruzione, provvisoriamente contestato a S, si trovasse, pur nell’omogeneità dell’illecito ivi descritto rispetto alla compagine associativa ab origine ipotizzata, in rapporto di connessione essenziale con l’originario assetto delle iscrizioni e dei correlati provvedimenti autorizzatori delle captazioni, in tal modo palesando un profilo di incongruenza ulteriore sul punto dell’applicazione dei criteri di utilizzabilità endoprocedimentale delle captazioni.
Non può, pertanto, essere condivisa la statuizione che, attraendo nell’alveo dell’originaria formulazione del reato sul quale è stata misurata l’esistenza di gravi indizi l’odierna contestazione associativa, ha reputato sussistente uno stesso procedimento e direttamente utilizzabili le intercettazioni, in presenza dell’ulteriore requisito – delineato da Sez. un. Cavallo – dell’ammissibilità del mezzo captativo ai sensi dell’art. 266 cod. proc. pen..
Tra i diversi procedimenti in comparazione sembra, allora, profilarsi una relazione di mero collegamento d’indagine, la riconducibilità di fatti diversi al medesimo “filone investigativo” che, esplorando la costellazione societaria di S, i rapporti tra i soggetti coinvolti ed i settori di ingerenza alla stregua di un’iniziale ipotesi di sistematica corruzione pubblica, ha, invece, disvelato l’esistenza di una compagine illecita operante nei rapporti tra società private.
Verifica dell’utilizzabilità delle intercettazioni e del regime normativo applicabile ratione temporis
A tanto consegue che la verifica di utilizzabilità delle intercettazioni deve essere svolta entro le rime declinate dall’art. 270 cod. proc. pen.
Affrontando il tema limitatamente al – non connesso – delitto di atti persecutori ascritto a S, il Tribunale del riesame ha ritenuto, in adesione alla prospettazione difensiva, che siffatta verifica dovesse essere svolta, ratione temporis, secondo la disciplina prevista dall’art. 270 citato, nella formulazione antecedente al d.l. n. 161/2019, convertito con modificazioni dalla legge n. 7/2020, in ragione del regime transitorio di cui all’art. 2, comma 8 dello stesso d.l., come sostituito dall’art. 1, comma 2, d.l. 287/2020, convertito dalla legge 70/2000, che ha previsto l’applicazione del novellato art. 270 ai procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020.
A fondamento di siffatto assunto, il Tribunale ha osservato come le notizie di reato legittimanti i decreti di intercettazione fossero state iscritte ben prima della predetta data, avendo dato origine al proc. R.G.N.R. 2307/2019.
…Iscrizione nel registro degli indagati
Trattasi di conclusione non condivisibile, alla luce della esatta individuazione del segmento temporale in cui, effettivamente, i reati per cui qui si procede – e per i quali occorre verificare l’utilizzabilità delle intercettazioni – sono stati iscritti.
I fatti per cui si procede risultano iscritti, con la modalità dell’ “aggiornamento”, il 22 aprile 2021. Occorre, dunque, interrogarsi sulla natura giuridica di siffatta modalità di iscrizione, al fine della individuazione della disciplina applicabile al caso in esame, e risolvere il quesito del se siffatto adempimento configuri una nuova iscrizione, come tale eseguita successivamente alla data del 31 agosto 2020 o se, al fine della risoluzione della questione di diritto intertemporale che qui si pone, occorra fare riferimento – secondo l’opzione prescelta dal Tribunale – alle precedenti iscrizioni.
Premesso che il pubblico ministero è obbligato a procedere all’ iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244378), la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero – salvi i soli casi di mutamento della qualificazione giuridica del fatto o dell’accertamento di circostanze aggravanti – debba procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato sia quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona, sia quando raccolga elementi in relazione al medesimo o ad un nuovo reato a carico di persone diverse dall’originario indagato (tra le tante, Sez. 2, n. 22016 del 06/03/2019, Rv. 276965.
La materia delle iscrizioni è, invero, funzionale non solo al controllo del rispetto dei termini di durata previsti dall’art. 405 cod. proc. pen., la cui violazione trova sanzione processuale nell’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza, ma anche nei casi in cui a siffatto adempimento la legge colleghi effetti giuridici o, come nel caso in esame, l’applicazione di norme ratione temporis.
Ebbene, ricorrono, nella struttura e nella disciplina dell’atto di iscrizione, elementi di inevitabile fluidità, che rendono lo scrutinio dei suoi presupposti meno meccanica di quanto i predicati di doverosità presenti nella disposizione dell’art. 335 cod. proc. pen. potrebbero, prima facie, suggerire: l’iscrizione è atto a struttura complessa, nel quale simbioticamente convivono una componente “oggettiva”, qual è la configurazione di un determinato fatto (“notizia”) come sussumibile nell’ambito
di una determinata fattispecie criminosa; e una componente “soggettiva”, rappresentata dal nominativo dell’indagato, dalla cui individuazione soltanto i termini cominciano a decorrere. Di guisa che l’iscrizione presuppone l’evidenza di specifici elementi indizianti, ovvero di una piattaforma cognitiva che consente l’individuazione degli elementi essenziali di un fatto di reato e l’indicazione delle relative fonti di prova (Sez. un., n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216248).
La consapevolezza della potenziale complessità dello scrutinio ha, dunque, condotto ad escludere la configurabilità di un potere del giudice di verificare la tempestività dell’iscrizione, per farne conseguire effetti sanzionatori di inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine decorrente, anziché dal momento della formale iscrizione, dal momento in cui la notitia criminis avrebbe potuto e dovuto essere annotata, ciò che esalta le prerogative processuali del Pubblico Ministero a fini di garanzia.
…e suoi successivi aggiornamenti
Del tutto diverso è, invece, il sindacato del giudice sullo sviluppo dinamico delle iscrizioni, dell’aggiornamento – ove ne ricorrano le condizioni (ex multis Sez. 4, n. 32776 del 06/07/2006, Rv. 234822 – e delle nuove iscrizioni, fondate sul principio dell’autonoma individuazione del dies a quo per la determinazione del termine di durata e del regime di utilizzabilità degli atti che ne deriva; regime condizionato, quanto alla valenza nei diversi procedimenti iscritti, della tempestiva adozione dell’atto nel procedimento in cui è stato acquisito (Sez. 5, n. 40500 del 24/09/2019, Rv. 277345, in motivazione).
Da quanto premesso, consegue che per determinare il “dies a quo” ai fini della decorrenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari relativi a diversi fatti iscritti sotto lo stesso numero in momenti differenti, l’unico criterio è quello di ordine sostanziale desumibile dall’art. 335 comma secondo cod. proc. pen., secondo cui, quando non si tratti di mutamento della qualificazione giuridica del fatto, né di diverse circostanze del medesimo fatto, non può parlarsi di aggiornamento di iscrizioni, ma di iscrizione autonoma.
Siffatti principi, enunciati in tema di determinazione della durata delle indagini preliminari, vanno tenuti in debito conto quando – come premesso – al momento dell’iscrizione la legge correli un qualsivoglia effetto giuridico e, quindi, quando a tale formalità sia riferita l’applicazione di una norma giuridica sopravvenuta quale è, nel caso in esame, l’art. 270 cod. proc. pen..
Nel caso in esame, quello che nell’ordinanza impugnata è definito “aggiornamento” dell’iscrizione altro non è che autonoma e nuova iscrizione dei reati per cui qui si procede.
E poiché l’iscrizione è stata effettuata solo il 22 aprile 2021, è a tale data che occorre fare riferimento per l’individuazione della norma regolatrice della materia.
…Riferimento alla data di iscrizione nel registro degli indagati: riguarda non i reati per i quali è stata autorizzata l’intercettazione ma quelli del diverso procedimento
Occorre, allora, interrogarsi su un ulteriore profilo, e cioè se il riferimento alla data di iscrizione dei reati, contenuto nella norma transitoria supra richiamata, riguardi i reati per i quali i decreti di intercettazione sono stati emessi o quelli del diverso procedimento.
Come noto, la data indicata dall’art. 9 del d. lgs. n. 16 del 2017 per l’applicazione della riforma è stata successivamente differita più volte (art. 2, comma 1, del d.l. 25 luglio 2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 settembre 2018, n. 108; legge 30 dicembre 2018, n. 145, c.d. legge di bilancio; art. 9, comma 2, lett. a), del d.l. 14 giugno 2019, n. 53, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2019, n. 77 e, infine, dall’art. 2, comma 8, d.l. 161/2019, convertito con L. 28 febbraio 2020, n.7).
L’art. 1 del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, modificando ulteriormente l’art. 9 del d.lgs. n. 216 del 2017, aveva stabilito, innovando il precedente testo, che le nuove norme sulle intercettazioni si applicano “ai procedimenti penali iscritti dopo il 30 aprile 2020″ e, quindi, non più “alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 31 dicembre 2019”, come fissato in precedenza; testo rimasto immutato nella definitiva versione oggi vigente.
Al parametro temporale delle “operazioni di intercettazione” èstato, dunque, sostituito quello della “iscrizione del procedimento”, al fine di “evitare la commistione di discipline diverse applicabili alle intercettazioni disposte nello stesso procedimento”, in tal modo abdicando al principio “tempus regit actum”, che invece ispirava la precedente versione della stessa disposizione la quale, come si è visto, faceva riferimento all’epoca di adozione dei decreti autorizzativi.
Siffatta indicazione rende ragione, all’evidenza, di come la locuzione “procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto 2020” si riferisca ai procedimenti nel cui ambito si intendano utilizzare i risultati di intercettazioni aliunde captate, e non già ai procedimenti in cui le stesse siano state autorizzate: è solo riguardo la circolazione extraprocedimentale del dato captativo che si pone, infatti, la questione del divieto di utilizzabilità e delle deroghe, e non già nel diverso procedimento nel quale le intercettazioni stesse siano state generate.
Da quanto argomentato discende che, nel procedimento in disamina, diverso da quello nel cui ambito le intercettazioni sono state autorizzate, la valutazione di utilizzabilità dei risultati capativi deve essere svolta entro le rime delineate dall’art. 270, nella nuova formulazione vigente e, nel caso, applicabile.
Considerazioni conclusive e punto di diritto
Il d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla legge n. 7 del 2020, ha modificato l’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., stabilendo che “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266, comma 1”.
Siffatta disposizione, dunque, anche dopo la riforma, continua a prevedere il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti. Essa, inoltre, ha previsto due distinte deroghe a tale divieto di utilizzazione: la prima ricalca la disciplina previgente, e consente la circolazione extraprocedimentale delle intercettazioni in relazione all’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza; la seconda, concerne i reati
di cui all’art. 266, comma 1, cod. proc. pen. (tra i quali, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b-bis), del d.l. n. 161 del 2019, come modificato dalla legge di conversione n. 7 del 2020, che ha introdotto nell’art. 266, comma 1, la lett. f-quinquies, sono stati inseriti anche i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo).
Per la prova di reati che rientrano nelle suddette deroghe, i risultati delle intercettazioni sono utilizzabili anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state autorizzate se sono “rilevanti” e “indispensabili”.
Siffatta locuzione, che aggiunge al carattere di indispensabilità anche quello di rilevanza, implica innovativamente, ed in modo rafforzato, la valutazione del “peso” del mezzo di prova, dovendo il giudice esplicitare, con adeguata motivazione, la rilevanza e la imprescindibilità delle captazioni, autorizzate nel procedimento a quo, per la prova dei reati contestati nel diverso procedimento ad quem.
L’utilizzabilità degli esiti delle captazioni realizzate aliunde, in altri termini, presuppone o che il reato sia tanto grave che per esso il legislatore ha previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, o, alternativamente, che per il titolo di reato accertato sarebbe stato comunque consentito procedere autonomamente ad operazioni di intercettazione.
L’utilizzo della congiunzione “e” ha, così, introdotto la previsione di una doppia deroga al divieto di utilizzazione, riducendone l’ambito originariamente tracciato.
Ritiene il collegio che una lettura cumulativa dei requisiti predetti, che richiederebbe – ai fini dell’utilizzabilità delle intercettazioni captate in altro procedimento – che il nuovo delitto in via di accertamento sia riconducibile tanto nel catalogo dell’art. 380 cod. proc. pen., quanto in quello dell’art. 266 cod. proc. pen., non sia autorizzata né dall’interpretazione letterale della disposizione, né dalla voluntas legis che affiora dai lavori preparatori (parere della Commissione permanente Affari Costituzionali del Senato della Repubblica del 19 febbraio 2020 relativamente all’emendamento n. 2.219): una restrizione della latitudine della deroga all’inutilizzabilità extraprocedimentale che deriverebbe dalla valutazione congiunta dei predetti parametri, e che sarebbe parzialmente abrogativa del precedente testo normativo, non si rivela coerente con la successiva disposizione di cui all’art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen che, nel regolamentare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, hanno previsto analoga deroga al divieto, consentendone l’esportabilità per la prova di “reati diversi” da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, sempre che si tratti di risultati indispensabili per l’accertamento di uno dei delitti indicati dall’art. 266, comma 2-bis, cod. proc. pen., in tal modo superando il rigore che era stato voluto dal d.lgs. n. 216 del 2017 e che aveva il fine di restringere l’ambito di operatività, sia pure indirettamente, del trojan horse.
Nel quadro così delineato, i principi espressi da Sez. un. Cavallo e dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 1757 del 17/12/2020, dep. 2021, Rv. 280326; Sez. 5, n. 37697 del 29/09/2021, Rv. 282027), conservano intatta la loro rilevanza quanto all’identificazione della nozione di stesso procedimento e quanto ai requisiti di utilizzabilità delle captazioni endoprocedimentali; in relazione all’applicazione dell’art. 270, nella nuova formulazione, gli stessi principi dovranno comunque orientare l’interprete nella valutazione dei limiti alle deroghe dell’inutilizzabilità extraprocedimentale, nel quadro dei principi costituzionali richiamati.
L’opzione qui accolta non evidenzia, invero, tensioni con i principi fondamentali, poiché la Corte costituzionale ha fatto sempre riferimento al bilanciamento rimesso al Legislatore: «la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, relativi all’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, risponde all’esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, giustificata dall’interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità», e dunque «la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge, l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, costituisce indubbiamente un non irragionevole bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e quello rappresentato dall’interesse pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).
L’estensione dell’ambito della deroga introdotta dal legislatore, con il correttivo della richiesta motivazione rafforzata nella valutazione di indispensabilità e rilevanza, non sembra, allora, contraddire il principio di eccezionalità dei limiti al generale divieto di circolazione dei risultati captativi.

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.