Femminicidio: la preclusione del giudizio di prevalenza dell’attenuante della provocazione sul rapporto di coniugio tra l’omicida e la vittima al vaglio della Corte Costituzionale (di Riccardo Radi)

Si segnala che la Corte Costituzionale è stata investita della seguente questione: “Visti gli articoli 134 della Costituzione, 23 ss. legge n. 87/1953, ritenuta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 577, comma 3 c.p., sollevata dal pubblico ministero e alla quale si è associata la difesa dell’imputato, rilevante e non manifestamente infondata con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui impedisce il giudizio di prevalenza, ai sensi dell’art. 69 c.p., della circostanza attenuante della provocazione rispetto alla circostanza aggravante prevista per il delitto di omicidio volontario, in relazione al fatto commesso contro il coniuge, dall’art. 577, comma 1, n. 1) del codice penale, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso”.

La Corte di assise di Cagliari  ha in corso un giudizio nel quale R., accusato di avere compiuto un omicidio in stato d’ira determinato dal fatto ingiusto della vittima ha subito più volte, nel corso della convivenza coniugale, per concordanti risultanze testimoniali, le aggressioni e gli scatti collerici del coniuge e, nonostante ciò, non lo ha abbandonato, ma protetto sotto ogni aspetto, persino da azioni autolesionistiche, come avvenuto per l’ennesima volta anche il giorno del fatto, quando R. si era trattenuto nell’abitazione familiare, dopo l’allontanamento della figlia … e dei suoi bambini, per impedire che la moglie potesse mettere in atto condotte nocive per la propria salute.

Il caso scrutinato non ha quindi nulla a che fare con una vicenda di sopraffazione di genere, ma costituisce invece il drammatico sbocco di una storia familiare afflitta da una carica di sofferenza e frustrazione e in questo contesto la Corte di assise ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 577, comma 3 c.p., nella parte in cui prevede che la circostanza attenuante della provocazione, diversa da una di quelle previste dagli articoli 62, numero 1, 89, 98 e 114 c.p., concorrente con le circostanze aggravanti di cui al primo comma, numero 1, e al secondo comma, non possa essere ritenuta prevalente rispetto a queste, come introdotto dalla legge n. 60 del 19 luglio 2019 («Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere»), per contrasto e violazione dei principi sanciti agli articoli 3, comma 1, e 27, comma 3 della Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata.

La disposizione introduce una deroga al giudizio di bilanciamento di una circostanza aggravante ad effetto speciale con concorrenti circostanze attenuanti (salvo quelle specificamente indicate nella norma esaminata).

Deroghe al bilanciamento sono possibili, e rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore, restando sindacabili dalla Corte costituzionale quando trasmodano nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, e, in ogni caso, non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale.

La Corte di Assise ha rilevato che:

con la legge 19 luglio 2019, n. 69 (recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere») denominata «Codice Rosso» sono state apportate nel nostro ordinamento incisive disposizioni di diritto penale sostanziale, così come ulteriori di natura processuale.

Tra quelle sostanziali, va annoverata la norma che, attraverso una tecnica legislativa che nel tempo ha avuto sempre più estesa applicazione, preclude un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti (diverse da quelle, nominativamente indicate, previste dagli articoli 62 n. 1, 89, 98 e 114 c.p.), qualora si sia in presenza delle ipotesi aggravanti dell’omicidio indicate dall’art. 577, comma 1, n. 1 c.p.) e, in particolare, per quanto qui interessa, del rapporto di coniugio tra l’autore del delitto e la vittima.

Una volta puntualizzato come, nel caso di specie, l’azione omicidiaria risulti certamente attenuata dalla provocazione e come questa circostanza attenuante, in assenza della limitazione normativa al giudizio di bilanciamento, dovrebbe essere valutala prevalente rispetto all’aggravante del rapporto di coniugio, l’irragionevolezza della preclusione, e la correlata violazione dei principi tratti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, si trae anzi tutto dal panorama socio-culturale nel cui ambito è stata introdotta la disposizione e quindi dalla sua ratio .

L’inasprimento della sanzione è certamente dovuto alla necessità di offrire una risposta severa dell’ordinamento rispetto a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l’azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell’uccisione della donna da parte del suo compagno.

Il femminicidio è stato definito, nell’ambito della delibera istitutiva della Commissione d’inchiesta specificamente costituita per svolgere indagini con riguardo alle reali dimensioni del fenomeno, come la «uccisione di una donna, basata sul genere».

Tutta la legislazione in materia è finalizzata a rendere effettiva la prevenzione e la protezione nell’ambito della violenza contro le donne, nel perimetro tracciato dalla Convenzione di Istanbul, nel preambolo della quale si legge che tale violenza «è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione». Tale fenomeno ha portata strutturale, in quanto è basato sul genere: «la violenza contro le donne è uno dei meccanismi strutturali sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Il femminicidio costituisce l’espressione della violenza più grave nel mondo, rappresentando — per le donne da 16 a 44 anni — la principale causa di morte. Come giustamente rilevato nella relazione della Commissione d’inchiesta, sarebbe improprio definire il femminicidio un’emergenza sociale, essendo una vera e propria condizione strutturale.

Nondimeno, è fondamentale distinguere tra uccisioni di donne e femminicidi: non ogni omicidio di donna rientra in tale particolare, seppur ricorrente, fattispecie.

I «motivi di genere» sono determinanti nell’inquadramento del femminicidio.

Inoltre, la Commissione di inchiesta ha rilevato come tutti i femminicidi esaminati nell’ambito delle indagini si connotano per due requisiti costitutivi: il «criminale di genere» forma la sua identità su una relazione di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di rapporto che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve e riaffermare e confermare il suo potere; la donna che decide di interrompere quella relazione viene uccisa perché, in molti casi, sottraendosi ai doveri di ruolo, non solo viola una regola sociale e culturale, ma rende l’uomo che glielo ha permesso un «perdente» agli occhi della collettività.

Al fine di contrastare il fenomeno, nel 2019 è per l’appunto entrato in vigore il c.d. Codice Rosso. Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge si ricava che gli interventi sono stati finalizzati a integrare le norme dirette a prevenire e reprimere la violenza di genere, «nella considerazione della particolare vulnerabilità delle vittime, nonché degli specifici rischi di reiterazione e multilesività».

Le nuove disposizioni non solo trovano fondamento nella Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, ma costituiscono inoltre uno strumento di ulteriore attuazione della direttiva 2012/29/UE, che ha offerto — tra le altre cose — un’ulteriore definizione di violenza di genere: “Per violenza di genere s’intende la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere […] è una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima”.

Orbene, è di tutta evidenza che la legge 19 luglio 2019, n. 69, sia stata concepita dal legislatore in un contesto che, se da una parte non può essere definito “emergenziale”, in ragione della sua portata strutturale, è stato di certo idoneo a determinare un allarme sociale di notevoli proporzioni, anche a causa dell’inadeguatezza delle misure di prevenzione e di assistenza sociale.

Le misure di prevenzione alla violenza di genere hanno così subito un inasprimento della risposta sanzionatoria, secondo un processo di modifica normativa più volte registrato nella storia dell’attività parlamentare e che ha riguardato diverse materie, tra le quali va ricordata, per le ripercussioni a suo tempo avute in punto di legittimità costituzionale della novella, quella del sequestro di persona a scopo di estorsione.

Ebbene, è necessario dunque chiedersi se l’art. 577, n. 3) c.p. non sia stato frutto di una risposta sanzionatoria che, come era avvenuto per l’art. 630 c.p., rischia di coinvolgere fenomeni di portata assai diversa, tanto più che la norma sul divieto di prevalenza delle attenuanti abbraccia rapporti estranei a quello coniugale oggetto del processo, quali l’ascendenza, la discendenza, l’adozione, l’unione civile, la stabile convivenza e addirittura la relazione affettiva, nell’ambito dei quali la condotta omicidiaria dell’agente e la sua riprovevolezza possono rispondere a una pluralità di variabili: difatti, posto che nel caso di omicidio volontario non è possibile distinguere le situazioni concrete a seconda del tasso di disvalore dell’evento, dato che il bene giuridico leso è sempre la vita della vittima, è comunque indispensabile vagliare gli episodi — e, di conseguenza, la risposta punitiva — dal punto di vista criminologico dell’agente.

Poiché i rapporti contemplati nell’aggravante in esame sono oggettivamente incontestabili e non possono formare oggetto di alcuna valutazione (fatta eccezione per il concetto di stabile convivenza e per quello di relazione affettiva) da parte dell’interprete, è necessario accertare se, nel caso concreto, l’omicidio sia stato «manifestazione dei rapporti di forza» diseguali tra uomo e donna, per restare al nostro caso, oppure dei rapporti comunque asimmetrici, nella realtà o potenzialmente, che contraddistinguono le altre ipotesi contemplate dell’art. 577, comma 1, n. 1) c.p.

Ebbene, in questo contesto, l’attenuante della provocazione, che dev’essere riconosciuta nell’azione delittuosa compiuta da R., può presentarsi in generale — e si presenta nella specie — slegata rispetto a quello squilibrio dei rapporti interpersonali che, come visto, il legislatore del «Codice Rosso» ha inteso tutelare, con il con riferimento sia ai soggetti più vulnerabili nell’ambito del rapporto coniugale, sia a quelli che presentano una minorata difesa nei diversi rapporti indicati dall’art. 577, comma 1, n. 1) c.p.

Illustrati questi argomenti, escludere la prevalenza dell’attenuante della provocazione, con il correlato profilo soggettivo, sull’aggravante del fatto omicidiario commesso contro il coniuge e quindi, con un giudizio di circostanze eterogenee al più di equivalenza, confinare la modulazione della pena nella forbice edittale compresa tra 21 e 24 anni di reclusione costituiscono dei passaggi di dosimetria del trattamento sanzionatorio in linea con una norma, l’art. 577, comma 3 c.p., che ad avviso della Corte di assise presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza e alla funzione di proporzionalità e di rieducazione della pena.

In primo luogo, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, il negare, rispetto all’aggravante in questione, la prevalenza della provocazione, la cui conformazione giuridica appare ben distante rispetto allo spirito e agli obbiettivi della novella del 2019, presenta elementi di ingiustificabile disarmonia rispetto all’attenuante dell’aver il colpevole agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 61, comma 1, n. 1) c.p.), che, oggettivamente estranea anch’essa alla ratio dell’inasprimento introdotto dal «Codice Rosso», può invece essere considerata prevalente rispetto alle ipotesi di aggravante indicate dall’art. 577, comma 1, n. 1) c.p.

Ed è altresì evidente la violazione dell’art. 27 della Costituzione, in quanto anche una pena compresa tra 21 e 24 anni di reclusione può presentarsi, rispetto alla complessiva valutazione del fatto, assolutamente sproporzionata, come certamente è nel caso di specie, impedendo in tal modo al trattamento sanzionatorio di esplicare la propria funzione rieducativa.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di una serie di norme che derogano al normale giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., in relazione a plurimi divieti di prevalenza di circostanze attenuanti, anche a effetto comune, su concorrenti aggravanti (Corte costituzionale, 15 novembre 2012, n. 251; 18 aprile 2014, n. 105; 18 aprile 2014, n. 106; 7 aprile 2016, n. 74; 17 luglio 2017, n. 205; 24 aprile 2020, n. 73; 31 marzo 2021, n. 55).

Se è vero che quella della provocazione è una circostanza attenuante a effetto comune, la sua incidenza sulla determinazione della pena da irrogare in concreto è, in ogni caso, particolarmente significativa, proprio in quanto opera su una sanzione astratta di estrema severità, qual è quella comminata per l’omicidio volontario.

Si legge, nelle decisioni della Consulta, che il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018).

E, inoltre, che il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dall’intensità del dolo o dal grado della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile (sentenza n. 73 del 2020).

In conclusione, l’art. 577, comma 3 c.p. appare in contrasto con il principio di uguaglianza e di proporzionalità della sanzione penale e, sotto quest’ultimo aspetto, la pena che, influenzata dal divieto di prevalenza della provocazione, andrebbe irrogata a P. R. non assolverebbe né a una funzione rieducativa del colpevole, né a quella special-preventiva, dal momento che gli conferirebbe, per effetto del rapporto di coniugo, una pericolosità sociale sproporzionata rispetto all’effettiva dinamica della condotta omicidiaria e dello stato di indicibile sofferenza in cui è maturata.

Ora aspettiamo la decisione dei Giudici del Palazzo della Consulta.