
La cassazione sezione 1 con la sentenza numero 48957 depositata il 23 dicembre 2022 ha stabilito che al fine di esercitare il diritto alla prova di cui all’art. 190 cod. proc. pen., il difensore può svolgere proprie indagini integrative, sin dal momento in cui riceve per iscritto l’incarico professionale, e ciò in ogni stato e grado del procedimento; a tali indagini istituzionalmente concorre, quando è necessario il possesso di specifiche competenze, il consulente tecnico che il professionista decida di associare alla difesa che non può subire limitazioni all’esercizio del suo incarico. In nessun caso sarà consentito sindacare, nell’esercizio del potere di autorizzazione all’accesso del consulente al carcere, le ragioni della effettiva necessità della consulenza extraperitale.
Fatto
Il G.i.p. del Tribunale di Modena rigettava l’istanza presentata nell’interesse di C.E. – ristretto presso la locale casa circondariale in regime di custodia in carcere in quanto accusato dell’omicidio della madre – diretta a consentire l’incontro del detenuto con il consulente medico legale di parte, in vista di accertamenti specialistici sul suo stato mentale.
Riteneva il G.i.p. che, non essendo stata disposta perizia, il nominato consulente tecnico potesse solo esercitare le facoltà previste dall’art. 233, comma 1, cod. proc. pen., ossia potesse esporre al giudice il proprio parere, anche per iscritto, senza poter esaminare la persona destinataria dell’indagine tecnico-scientifica.
Tale facoltà di esame avrebbe potuto essere recuperata, in capo al consulente tecnico, solo in caso di successiva nomina del perito, a norma dell’art. 233, comma 2, cod. proc. pen., in combinato disposto con l’art. 230 dello stesso codice.
In ogni caso, l’accesso del consulente in carcere appariva ingiustificato, non risultando dagli atti che l’indagato fosse affetto da malattie psichiatriche, che avrebbero dovuto, altrimenti, essere segnalate alla direzione sanitaria dell’istituto penitenziario.
Decisione:
Occorre anzitutto premettere che la cassazione si è già pronunciata in ordine alla immediata ricorribilità dinanzi a sé, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., dei provvedimenti, non altrimenti impugnabili, incidenti sulla libertà personale, quali quelli in tema di istanze di colloquio dei detenuti ai sensi dell’art. 18 legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), potendosi tali provvedimenti risolvere in un inasprimento del grado di afflittività della misura custodiale cui i ristretti sono sottoposti (Sez. 6, n. 3729 del 24/11/2015, dep. 2016, Rv. 265927-01; Sez. 2, n. 23760 del 06/05/2015, Rv. 264388-01; Sez. 5, n. 8798 del 04/07/2013, dep. 2014, Rv. 258823-01; Sez. 1, n. 26835 del 04/05/2011, Rv. 250801-01).
Alla disciplina dei colloqui, ancorché aventi caratteristiche non direttamente assimilabili al regime di cui all’art. 104 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 15157 del 16/12/2010, dep. 2011, Rv. 249900-01), è da ricondurre la richiesta d’incontro del detenuto in custodia cautelare con il consulente tecnico della difesa, incaricato, fuori dei casi di perizia, di svolgere accertamenti sulla sua persona.
Sarà dunque il G.i.p., o il giudice procedente, a seconda dello stato di avanzamento del procedimento, e sino a quando non è pronunciata la sentenza di primo grado, a dover rilasciare l’autorizzazione prevista dal menzionato art. 18 Ord. pen., e le relative determinazioni saranno assoggettate al sindacato di legittimità di questa Corte, come quello attivato dal ricorso in questa sede proposto.
La Suprema Corte ha da tempo riconosciuto che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce, a pieno titolo, nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 Cost., costituendo espressione dei diritto di difesa tutte le volte in cui l’accertamento della responsabilità penale richieda il possesso di cognizioni tecniche che, in quanto non sono presunte nella persona del giudice, così possono non essere proprie del difensore (in tal senso Corte cost., n.33 del 1999, che ha garantito tale possibilità anche al non abbiente, e n. 498 del 1989). Ogni limitazione imposta a tale ausilio si risolve in una menomazione di quel diritto (Corte cost. n. 345 dei 1987), tanto che, con sentenza n. 559 dei 1990, il giudice delle leggi ha stabilito il medesimo principio anche in riferimento al consulente tecnico nominato dalla persona offesa.
La giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che nessuna disposizione processuale vieta al consulente tecnico di svolgere accertamenti al di fuori delle vere e proprie operazioni peritali, al fine di riferirne al giudice mediante memoria scritta, in quanto la disposizione di cui all’art. 230 c.p.p. non esaurisce l’ambito delle attività consentite al consulente, ma stabilisce solo i rapporti tra dette attività e quella del perito; oltre ad affiancare quest’ultimo, il consulente tecnico ha facoltà di procedere a qualsiasi altra indagine, ferma restando la valutazione discrezionale del giudice sulle conclusioni esposte da tale consulente nel corso dell’audizione dello stesso come testimone in giudizio, o riassunte nella relazione scritta, che possono anche essere utilizzate, previa congrua e convincente motivazione, ai fini della decisione (Sez. 3, n. 21018 del 30/09/2014, dep. 2015, Rv. 263737-01; Sez. 4, n. 14863 del 03/02/2004, Rv. 228596-01; Sez. 1, n. 7252 dell’8/6/1999, Rv. 213704-01).
E invero, già al fine di esercitare il diritto alla prova di cui all’art. 190 cod. proc. pen., il difensore può svolgere proprie indagini integrative, sin dal momento in cui riceve per iscritto l’incarico professionale, e ciò in ogni stato e grado del procedimento; a tali indagini istituzionalmente concorre, quando è necessario il possesso di specifiche competenze, il consulente tecnico che il professionista decida di associare alla difesa (art. 327-bis, comma 3, cod. proc. pen.), i cui pareri, ritualmente formulati, eventualmente confluiti nel fascicolo del difensore previsto dall’art. 391-octies cod. proc. pen., possono essere rappresentati al giudice anche nelle indagini preliminari, allorché il giudice stesso debba adottare una decisione con l’intervento della parte privata, o all’udienza preliminare (Sez. 1, n. 12691 del 11/12/2019, dep. 2020, Rv. 278905-01). 3. L’art. 230 cod. proc. pen. torna applicabile, a norma del successivo art. 233, comma 2, nell’ipotesi in cui, dopo la nomina del consulente tecnico, sia stata disposta la perizia.
Il legislatore ha ritenuto opportuno, anche in questo caso, evitare che le valutazioni del giudice si fondino solamente sulle deduzioni e sulla relazione del perito nominato dal giudice stesso.
E, dunque, il consulente tecnico, già investito del suo ufficio, può assistere al conferimento dell’incarico peritale e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, da inserirsi nel verbale; egli può inoltre, in chiave di contraddittorio preliminare, proporre al perito specifiche indagini e formulare osservazioni e riserve al perito stesso (art. 230, cit., commi 1 e 2).
Nell’ipotesi, poi, in cui il consulente sia stato nominato dalle parti solo successivamente all’esaurimento delle operazioni peritali, il medesimo può esaminare la relativa relazione ed essere autorizzato dal giudice ad esaminare la persona, la cosa o il luogo oggetto della perizia (art. 230, comma 3).
Il sistema è dunque improntato, in prospettiva costituzionalmente orientata, al massimo favore per il dispiegamento della difesa tecnica, che risulti collegata alla disponibilità e all’impiego di competenze specialistiche in ambito extragiuridico, tali da imporre l’ausilio del consulente tecnico.
Sarebbe dunque erroneo desumere dal combinato disposto degli artt. 230 e 233 del codice di rito l’esistenza di limitazioni di principio all’operato del consulente tecnico, al di fuori dei casi di perizia o per il tempo antecedente all’espletamento di quest’ultima.
Anche per l’ipotesi che, o finché, la perizia non venga disposta, il consulente tecnico è ammesso a svolgere indagini di sua iniziativa, e queste ultime hanno una latitudine potenziale pari a quella che potrebbe essere rimessa al perito, non essendovi ragione per escludere dal loro ambito conoscitivo particolari oggetti, e per non consentire, parimenti al consulente, l’esame della persona, della cosa o del luogo passibili di concorrente, ma futuro, accertamento peritale.
Se la cosa o il luogo sono sotto sequestro, o non sono nella disponibilità della parte privata richiedente, l’autorità giudiziaria dovrà previamente autorizzare l’esame (e, se del caso, il previo accesso: v. art. 391-septies cod. proc. pen.) e, nel fare ciò, la stessa autorità dovrà ovviamente garantire la conservazione del loro stato, potendo pertanto impartire le prescrizioni necessarie, a norma dell’art. 233, comma 1-ter, cod. proc. pen., ma non potendo differire o impedire l’accertamento di parte per ragioni diverse da quelle intese a salvaguardare l’integrità dei beni coinvolti e la fruttuosità di eventuali successivi accertamenti in contraddittorio.
L’autorizzazione del giudice sarà naturalmente necessaria, altresì, per permettere l’accesso del consulente tecnico in carcere, al fine di eseguire accertamenti sulla persona sottoposta alle indagini, che vi si trovi detenuta, e anche in questo caso il diniego, o la posticipazione, della relativa facoltà dovranno essere rigorosamente motivati, potendo essere giustificati solo da ragioni attinenti alla svolgimento delle indagini, alla sicurezza dell’esame, alla garanzia della sua reiterabilità o al rispetto della persona.
In nessun caso sarà consentito sindacare, nell’esercizio del potere di autorizzazione all’accesso del consulente al carcere, le ragioni della effettiva necessità della consulenza extraperitale.
Il ricorso deve ritenersi fondato, in base alle considerazioni che precedono. L’ordinanza impugnata deve essere pertanto annullata, onde consentire al giudice che l’ha adottata la rinnovata valutazione dell’istanza di accesso del consulente tecnico al carcere, coerente con i principi di diritto formulati.

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