Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al “processo mediatico”: il racconto di un’anomalia italiana (di Vincenzo Giglio)

È da poco nelle librerie Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al “processo mediatico”, N. Triggiani (a cura di), Cacucci Editore, Bari, 2022.

Il curatore, Nicola Triggiani, è ordinario di diritto processuale penale nell’università “Aldo Moro” di Bari e tra i suoi vari interessi di ricerca spicca il rapporto tra giustizia penale, informazione e linguaggio.

La propensione ad uno sguardo così ampio trova specchio nell’opera alla cui stesura hanno collaborato non solo cattedratici di procedura penale ma anche filosofi del diritto, linguisti, giornalisti e magistrati.

Così si legge nella quarta di copertina:

Il volume affronta in prospettiva interdisciplinare le complesse problematiche relative al rapporto tra processo penale e informazione, evidenziando l’attrito tra libertà di cronaca e altri valori costituzionali (amministrazione della giustizia, presunzione di non colpevolezza, diritto di difesa, riservatezza, ecc.); s’intuisce, al riguardo, la necessità di trovare un (difficile) punto di equilibrio in un settore nevralgico per la democrazia.

Emerge un profondo divario tra dato normativo e prassi: a fronte di un articolato complesso di regole, risulta molto frequente l’inosservanza dei divieti di pubblicazione di atti posti a tutela del segreto investigativo o della riservatezza.

I maggiori effetti distorsivi nella rappresentazione mediatica della giustizia penale derivano però non tanto dalla narrazione mediante la cronaca giudiziaria – che pure registra abusi, carenze ed eccessi – quanto dal più recente fenomeno dei “processi paralleli” in TV, in grado di condizionare pesantemente l’opinione pubblica e di incidere potenzialmente anche sullo stesso svolgimento e sugli esiti del processo.

Al di là di eventuali ulteriori modifiche normative, resta centrale il richiamo alla deontologia e al senso di responsabilità degli operatori della giustizia e dell’informazione, ma soprattutto auspicabile un’autentica rivoluzione culturale che  coinvolga media, magistratura e società“.

Questa pur breve presentazione contiene tutte le tracce che servono ad orientare i lettori: conflitto tra libertà di cronaca, senza la quale non sarebbe garantito il diritto ad essere informati, e le libertà individuali che l’informazione può danneggiare; violazioni sistemiche e di fatto non perseguite del segreto investigativo e della riservatezza; torsioni e alterazioni che la giustizia mediatica – e i processi paralleli che ne fanno parte integrante – può provocare alla normale fisiologia del giudizio penale.

C’è pure un auspicio: che chi amministra giustizia e chi la racconta alla comunità avvertano la responsabilità delle loro funzioni e recuperino l’umanesimo che mai dovrebbe abbandonare il tremendo potere di giudicare.

Un giusto auspicio ma è difficile convincersi che qualcuno vorrà farsene ispirare.

Non lo si afferma per cinismo o nichilismo ma in forza di elementi di fatto inconfutabili.

Il primo deriva dalla straordinaria persistenza dell’interesse popolare attorno alle cose della giustizia penale.

Significative le parole di Francesco Carnelutti di 65 anni fa (Le miserie del processo penale, ERI, Roma, 1957, p. 46):

«il processo medesimo è una tortura. Fino a un certo punto, dicevo, non si può farne a meno; ma la cosiddetta civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del processo. L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati offerti in pasto alle fiere […] L’articolo della Costituzione, che si illude di garantire l’incolumità dell’imputato, è praticamente inconciliabile con quell’altro, che sancisce la libertà di stampa. Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti, perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo».

E così dice assai più di recente Gemma Marotta (La vittima del processo penale: un nuovo processo di vittimizzazione, in Rev. Fac. Direito UFMG, Belo Horizonte, n. 70, pp. 359 – 369, primo semestre 2017):

«Il clamore mediatico che accompagna l’inizio delle indagini, modifica profondamente, rispetto al passato, le modalità di partecipazione della collettività alla vicenda processuale del singolo. In questa fase procedimentale, infatti, le notizie veicolate dai media sono esclusivamente quelle ritraibili dalle indagini dell’accusa e, inoltre, sono solo quelle che i media stessi ritengono rilevanti per la pubblicazione, criterio, questo, che non solo può non coincidere, come sovente non coincide, con ciò che è rilevante per l’indagine, ma, che, inoltre, pubblicizza solo parzialmente le acquisizioni degli investigatori, fornendo necessariamente una conoscenza incompleta. degli elementi, per cui la restante parte è colmata con ipotesi, presunzioni, immaginazione, di ognuno dei fruitori delle notizie. Deve aggiungersi che l’indagato, non avendo accesso a tutte le carte dell’accusa sino alla conclusione dell’indagine, in questo momento non può che misurare le proprie eventuali difese mediatiche su quelle stesse parziali informazioni che sono state scelte e pubblicate, senza possibilità di riscontro e di controllo alcuno. Insomma si realizza una indagine virtuale e putativa diversa per quanti sono coloro che se ne informano sui media. Anzi, in tal modo le indagini divengono, per la pubblica opinione, esse stesse il processo (anticipato), ma un processo sbilanciato tutto dalla parte dell’accusa, con la difesa sostanzialmente priva di strumenti e di parola, se non una trascurabile facoltà di tribuna, pur richiesta dai media, per quel che vale. Questo “processo” determina ovviamente convinzioni e pregiudizi e si conclude con un giudizio, anzi con tanti giudizi per quanti saranno coloro che sono stati raggiunti dalle informazioni fornite dai media, in anticipo, a volte di molti anni, rispetto all’esito del vero processo, il quale sbiadisce come trascurabile appendice rispetto a quello celebratosi al tempo delle indagini, e poco importa se si concluderà con una sentenza di assoluzione. Nel descritto meccanismo, naturalmente, la notorietà del soggetto coinvolto, come si è visto in numerosi casi, funge da potente amplificatore, ma non è un elemento decisivo, perché è l’oggettivo interesse di notizia dell’evento che discrimina tra clamore mediatico del fatto e dei soggetti coinvolti, oppure l’anonimato. Il ruolo fondamentale dei mass media è evidente: sono essi che selezionano i fatti più importanti o più “attraenti” da riportare, filtrandoli attraverso una serie di “cancelli” secondo il metodo del gatekeeping. Senza dilungarci sulle diverse interpretazioni presenti nella letteratura sul tema, basti sottolineare come sia i media classici sia i new media diano rilevanza in particolare ai fatti di cronaca nera (presunti autori, vittime, svolgimento delle attività investigative, alcuni processi), a volte, come si avuto modo già di scrivere, trasformandoli in “spettacolo” con voyeurismo morboso, adducendo come giustificazione che rappresentano notizie “più vendibili”».

Impossibile poi dimenticare la fortunata trasmissione Rai “Un giorno in Pretura”, nata per offrire al grande pubblico televisivo l’opportunità (l’illusione?) di uno sguardo dall’interno (dal buco della serratura?) nelle aule di giustizia, che tra il 1993 e il 1994 dedicò ben 25 puntate al processo Enimont (quello sulla cosiddetta “madre di tutte le tangenti”, probabilmente l’apice della stagione di Mani Pulite) che sono state adesso raccolte in boxset e offerte all’audience, al pari di una serie di successo.

Senza poi contare lo stile descrittivo di quelle puntate, la scelta delle visuali e dei dettagli sui quali focalizzarsi (comprese le gocce di sudore di alcuni personaggi, il filo di bava che tracimava inconsapevolmente dall’angolo della bocca di altri), la narrazione prescelta.

Si può senz’altro affermare che proprio con Mani Pulite la soddisfazione informativa di quell’interesse morboso raggiunse nuove vette non più abbandonate.

La cronaca giudiziaria fu sdoganata e trasformata in qualcosa di nuovo e diverso: i resoconti dei processi acquisirono in quegli anni una valenza politica, sociale e di costume, i cronisti giudiziari divennero sempre più spesso anche scrittori e opinionisti, il legal divenne un importante genere letterario frequentato da autori illustri, le inchieste più importanti e attrattive furono scandagliate senza risparmiare nessun possibile retroscena.

È sotto gli occhi di tutti che questa presa del complessivo circuito massmediatico su indagini e processi non è mai cessata e continua con ancora maggiore forza anche oggi.

Lo stesso vale per i principali effetti del fenomeno: l’immediatezza dello stigma, le ondate di indignazione verso gli indagati oggi aggravate dalla disponibilità delle piattaforme social e dalla facile aggregazione di odiatori in servizio permanente.

Tanto è forte questa presa che ci sono voluti ben cinque anni perché il nostro Paese recepisse con il decreto legislativo n. 188/2021 la direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. E si continua peraltro a gridare allo scandalo perché si è osato ricordare che nessuno può essere presentato come colpevole senza esserlo nei modi previsti dalla legge così come nessuno può abusare della sua qualifica di inquirente e dell’attenzione privilegiata riservatagli dai mass media per diffondere giudizi prematuri o per dichiarare che intende rivoltare come un calzino questo o quel territorio o ambito.

Ecco, il processo mediatico è tutto questo e molto altro ancora.

Bisogna quindi essere grati quando qualcuno ce lo ricorda e ci aiuta a comprenderne i meccanismi più perversi e subliminali.

L’opera curata da Nicola Triggiani fa esattamente questo e lo fa con grande accuratezza e con uno sguardo acuto.

Conviene leggerla.