Ingiusta detenzione: se è tale ab origine il dolo o la colpa di chi la subisce non escludono l’indennizzo

Vicenda

La Corte di appello di Firenze, con ordinanza del 27 giugno 2019, ha liquidato circa 190.000 € agli eredi di HM, detenuto in carcere per un anno in esecuzione di una misura cautelare emessa dal Tribunale di Firenze e poi assolto.

La quarta sezione penale della Corte di cassazione, accogliendo un ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha annullato con rinvio quell’ordinanza.

Nel giudizio di rinvio la Corte fiorentina si è determinata in modo differente e questa volta ha respinto l’istanza di riparazione.

Gli eredi di HM hanno impugnato per cassazione la decisione negativa.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è stato trattato dalla prima sezione penale che lo ha definito con la sentenza n. 42620/2022 in esito all’udienza del 23 settembre 2022, accogliendo il ricorso.

In premessa il collegio, richiamando la decisione n. 32383/2010 delle Sezioni unite, ha sottolineato un suo passaggio testuale in cui si chiarisce che l’accertamento “dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga (vuoi nel procedimento cautelare vuoi nel procedimento di merito) sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, e in ragione esclusivamente di una loro diversa valutazione … la possibilità del diniego del diritto alla riparazione per effetto della condizione ostativa della condotta sinergica del soggetto rimane effettivamente preclusa. Ciò però si verifica non per una diversa configurazione strutturale di tale diritto, sibbene in forza dello stesso meccanismo causale che governa l’operatività della condizione in parola. Allorquando, in effetti, si riconosce che il GIP era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura, con ciò stesso si esclude la ravvisabilità di una coefficienza causale nella sua determinazione da parte del soggetto passivo. La rilevanza della condotta ostativa si misura infatti non sull’influenzabilità della persona del singolo giudice, bensì sull’idoneità a indurre in errore la struttura giudiziaria preposta alla trattazione del caso, complessivamente e oggettivamente intesa (cfr. Cass., Sez. 4, 15 marzo 1995, Sorrentino). Ai fini delle verifiche di pertinenza del giudice della riparazione diviene, quindi, particolarmente importante appurare se l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sia avvenuto (vuoi nel procedimento cautelare vuoi nel procedimento di merito) sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, o alla stregua di un materiale contrassegnato da diversità (purché rilevante ai fini della decisione) rispetto ad essi, posto che la problematica della condotta sinergica viene praticamente in rilievo solo nel secondo e non anche nel primo dei suddetti casi“.

Sulla scorta di questa argomentazione, ricorda il collegio, le Sezioni unite affermarono il seguente principio di diritto: “La circostanza dell’avere dato o concorso a dare causa alla misura custodiale per dolo o colpa grave opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione anche nella ipotesi, prevista dal secondo comma dell’art. 314 c.p.p., di riparazione per sottoposizione a custodia cautelare in assenza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p.; tale operatività non può peraltro concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa la condizione stessa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, e in ragione esclusivamente di una loro diversa valutazione“.

I giudici di legittimità hanno a questo punto constatato che “la Corte territoriale ha indicato in maniera del tutto generica gli elementi costituenti indici di dolo e colpa grave. La Corte di appello ha fatto riferimento ai rapporti del richiedente con soggetti dediti allo smercio di sostanze stupefacenti, accertati attraverso l’ascolto delle telefonate sulle utenze sottoposte ad intercettazione, senza specificare l’epoca di tali rapporti, con chi siano avvenuti, la loro rilevanza ai fini dell’emissione dell’ordinanza cautelare“.

Gli è stato quindi necessario ribadire “il principio per cui, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice, per valutare la sussistenza del requisito della diretta efficacia del dolo o della colpa grave dell’interessato sull’emissione della misura cautelare, deve effettuare uno specifico raffronto tra la condotta dell’indagato e le ragioni esposte nella motivazione dell’ordinanza che ha disposto la misura stessa (Sez. 3, n. 36336 del 19/06/2019, Wakel, Rv. 277662 – 01)“.

Lo stesso addebito di genericità hanno mosso riguardo ala valutazione delle intercettazioni fatta nell’ordinanza impugnata: “Anche il riferimento alle intercettazioni telefoniche è del tutto generico, poiché non sono state indicate neanche quali conversazioni sarebbero state rilevanti e non ne è indicato il contenuto. Né è sufficiente il richiamo a quelle riportate nel ricorso dell’Avvocatura dello Stato non essendone stata fatta un’analisi ai fini dell’incidenza sul titolo cautelare, secondo la prospettiva ex art. 314 cod. proc. pen. prima delineata“.

Ed ancora: “Il richiamo agli elementi di prova emersi nelle indagini preliminari è avvenuto, inoltre, senza verificare, come richiesto dalla sentenza di annullamento con rinvio mediante il richiamo ai principi della sentenza D’Ambrosio, se l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sia avvenuto nel procedimento di merito sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, o alla stregua di un materiale contrassegnato da diversità (purché rilevante ai fini della decisione) rispetto ad essi, posto che la problematica della condotta sinergica viene praticamente in rilievo solo nel secondo e non anche nel primo dei suddetti casi. Tale verifica non emerge neanche dal passaggio sulla motivazione della sentenza di assoluzione, riportato a pag. 7 dell’ordinanza impugnata. La Corte di appello non ha, pertanto, correttamente applicato il principio per cui in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice della riparazione, per decidere se l’imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione (così Sez. 4, n. 41396 del 15/09/2016, Piccolo, Rv. 268238: nel caso esaminato, la Corte ha applicato il principio in un’ipotesi di non coincidenza tra quadro indiziario esaminato nella fase cautelare e quadro probatorio alla base del giudizio assolutorio, ritenendo legittima la valutazione del verbale di arresto e di alcune dichiarazioni fisiologicamente inutilizzabili in dibattimento)“.

Così come “Non può poi darsi più alcun valore all’esercizio della facoltà di non rispondere. Va ribadito il principio per cui – cfr. Sez. 4, n. 19621 del 12/04/2022, Rv. 283241 – 01 – in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, a seguito della modifica dell’art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 4, comma 4, lett. B), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, il silenzio serbato dall’indagato in sede di interrogatorio, nell’esercizio della facoltà difensiva prevista dall’art. 64, comma 3, lett. B), cod. proc. pen., non costituisce condotta ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione. Il legislatore, con il decreto legislativo n. 188 del 8 novembre 2021, relativo alle «Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali», ha aggiunto al primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. Il seguente periodo: «L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo». La modifica legislativa esclude la rilevanza, a fini riparativi, della scelta difensiva di non rispondere, ed impone di precisare che il divieto di valorizzare l’esercizio della facoltà difensiva di difendersi tacendo non conosce alcuna limitazione, non potendo, in nessun caso, il giudice della riparazione fare ricorso a siffatto comportamento difensivo per affermare la sussistenza della condotta ostativa, che deve essere rinvenuta in altri comportamenti“.

Ed infine “Il ricorso è fondato anche quanto al travisamento della prova; dal verbale di perquisizione e sequestro in atti non risulta il sequestro della sostanza stupefacente indicato dalla Corte di appello; né la Corte territoriale ha indicato quale sia la fonte della prova adoperata ai fini della decisione“.

È seguito, come esito inevitabile, l’annullamento con rinvio della decisione impugnata. Una decisione di sconcertante superficialità, quella della Corte d’appello, alla quale, per fortuna, la Cassazione ha rimediato.