Profitto, provento e prezzo del reato: la cassazione prova a definirli una volta per tutte (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 6 con la sentenza numero 45525 depositata il 30 novembre 2022 definisce il profitto e il prezzo del reato.

Fatto

Con atto del proprio difensore, M. ricorre per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 7 giugno scorso, che, applicandogli la pena ai sensi dell’art. 444, cod. proc. pen., per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ha altresì disposto la confisca del denaro sequestratogli (nella misura complessiva di 960 euro, dei quali 210 custoditi in tasca e 750 presso la sua abitazione), ritenendolo «provento di spaccio».

Con il ricorso si deduce il vizio di motivazione in parte qua, ritenendo indimostrato il nesso strumentale tra quelle somme e l’attività delittuosa, e comunque evidenziando l’assenza di giustificazione sul punto.

Con requisitoria scritta, depositata in cancelleria, il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Decisione

In tema di applicazione di pena su richiesta delle parti, la doglianza relativa alla mancata motivazione circa la confisca può essere oggetto di ricorso per cassazione, anche se la sentenza sia stata emessa dopo l’introduzione dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., ad opera dell’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103, trattandosi di un’ipotesi di “illegalità della misura di sicurezza”, perciò rilevante come violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., e comunque riguardando un aspetto della decisione estraneo all’accordo sull’applicazione della pena (Sez. U, n. 21368 del 26/09/2019, dep. 2020, Rv. 279348).

Nel merito, poi, l’impugnazione è fondata.

La confisca può avere ad oggetto le cose funzionali alla commissione del reato, quelle intrinsecamente illecite – ai sensi del comma 2, n. 2), dell’art. 240, cod. pen., o di altre specifiche disposizioni di legge – nonché quelle che costituiscono il “prezzo”, il “prodotto” od il “profitto” del reato, a norma del comma 1 e del comma 2, n. 1), del medesimo art. 240.

Nel caso specifico, detta misura è stata giustificata perché il denaro è stato ritenuto «provento» di attività delittuosa.

Tale definizione – quantunque atecnica, perché estranea al testo normativo – consente tuttavia di circoscrivere le attenzioni della Corte, per affinità semantica, alle nozioni di “profitto” e di “prezzo” del reato.

Quest’ultimo è concordemente individuato nel compenso, dato o promesso, per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato (per tutte, Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Rv. 205707).

Più laboriosa, invece, è stata l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità sulla nozione di “profitto”, che tuttavia può ritenersi pervenuta ad approdi ormai condivisi.

Limitando a richiamare i concetti rilevanti nella concreta fattispecie in esame, s’intende per tale il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal causale dalla condotta dell’agente. reato: esso presuppone, dunque, l’accertamento della sua diretta derivazione.

Il criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a titolo di profitto, dunque, è rappresentato dalla pertinenzialità della cosa rispetto al reato: occorre, cioè, una correlazione diretta del vantaggio con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire dall’illecito (per tutte, Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti, Rv. 239924; Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, Rv. 238700; nonché, quantunque non massimate su tali specifici punti: Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, Montella).

Se questi sono i confini entro i quali è consentita la confisca del profitto del reato, è agevole cogliere come l’ipotesi in scrutinio si collochi al di fuori di essi.

Al ricorrente si addebita, infatti, esclusivamente di avere detenuto un determinato quantitativo di sostanza stupefacente a scopo di venderla, ma non già di averla venduta.

Le somme rinvenute nella sua disponibilità e sequestrategli non possono mai rappresentare, dunque, il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta da tale detenzione a scopi illegali.

Né può rilevare l’ipotetica provenienza di quel denaro da precedenti attività illecite, quand’anche dello stesso tipo, peraltro neppure presunte ma, al più, soltanto presumibili e, comunque, esulanti dalla contestazione.

Ovviamente, poi, le somme di cui si discorre non possono neppure qualificarsi come “prezzo” dell’illegale detenzione, sì da essere soggette a confisca obbligatoria. In astratto, tanto sarebbe possibile qualora si trattasse, per esempio, della remunerazione corrisposta al ricorrente per la custodia o il trasporto di quella sostanza.

Tuttavia, si tratta di ipotesi meramente accademica, poiché non ve n’è traccia in sentenza. Altrettanto dicasi, infine, per l’ipotesi adombrata dal Procuratore generale nella sua requisitoria, per cui quel denaro potrebbe essere stato il corrispettivo che l’imputato avrebbe dovuto successivamente versare in pagamento della droga detenuta.

Anche questa, in effetti, è un’ipotesi puramente congetturale e, comunque, non prospettata, nemmeno in via alternativa ed eventuale, dal giudice di merito.

La sentenza dev’essere, pertanto, annullata senza rinvio in parte qua, non emergendo dalla relativa motivazione gli estremi per una diversa possibilità di giustificazione della misura ablativa. Conseguentemente, venuto meno il vincolo, il denaro sequestrato dev’essere restituito all’avente diritto.