
La rivista Sistema Penale ha pubblicato di recente Uno sguardo alla prassi: processi di mafia e teste di p.g. di A. Capone (lo scritto è scaricabile a questo link).
L’attenzione dell’autore è stata attratta dalla prassi, seguita quasi senza eccezioni in quel tipo di processi, di iniziare l’istruzione dibattimentale con la deposizione dell’ufficiale di polizia giudiziaria che, in quanto coordinatore delle indagini, ne ha una visione complessiva ed è quindi in grado, meglio di chiunque altro, di offrire al giudice il divenire degli accertamenti e il loro senso generale.
Capone la definisce una “prassi obliqua” che si collocherebbe “in un ambito intermedio tra quelle praeter e quelle contra legem“.
È un punto di vista interessante che l’autore giustifica con argomenti solidi ed è per questo che vale la pena leggere ciò che ha scritto.
Non serve quindi fare il controcanto, semmai può essere utile aggiungere alcune autonome considerazioni.
Se si ha esperienza di giudizi di mafia, si sa che il loro format più diffuso è quello del maxiprocesso.
Decine, talvolta centinaia, di imputati e manifesti accusatori fatti di una miriade di imputazioni, tanto per cominciare.
A cascata, parti offese, parti civili, nutriti collegi difensivi, pubblico delle grandi occasioni, cronisti giudiziari.
In contesti del genere, in cui ogni aspetto esorbita dall’ordinario, ivi comprese la dimensione quantitativa e la complessità delle indagini preliminari, la deposizione del coordinatore del lavoro investigativo è parte integrante di questa complessiva straordinarietà ed anzi è uno dei più potenti segnali che l’accusa invia agli attori del processo e all’opinione pubblica.
L’efficacia evocativa di questo primo atto dell’istruttoria dibattimentale deve essere massima perché per suo tramite l’accusa dimostra la serietà, la profondità e l’accuratezza del lavoro svolto.
Questa necessità dimostrativa genera delle conseguenze altrettanto necessitate.
La deposizione deve essere lunga e quindi impegnare numerose udienze. Più il responsabile delle indagini rimane sulla scena, meglio si raggiunge lo scopo di rappresentare sotto la luce più limpida i risultati raggiunti.
La deposizione non può limitarsi all’elencazione di attività concrete. Occorre invece che abbia le caratteristiche di una narrazione. Il dichiarante deve quindi partire da lontano, raccontare le vecchie storie da cui tutto è partito, svelare una a una le intuizioni che hanno permesso di attualizzarle al presente, spiegare cosa si è fatto per tradurre le intuizioni in progetti e poi in conoscenze e poi in prove. Si genera così l’idea di una ineluttabilità dell’azione penale e del giudizio, si trasmette la percezione di un rigore cartesiano nella catene fattuali e logiche proposte dall’accusa pubblica e si prepara il terreno per farle avallare dal giudice.
La deposizione deve essere avvolgente e non tralasciare nulla di ciò che conta perché più e dettagliato il racconto, più profonda e duratura sarà la convinzione della sua bontà.
Giunti a questo punto, bisogna necessariamente accennare alle intercettazioni.
Hanno pressoché sempre un ruolo cruciale nei processi di mafia e si contano a centinaia o migliaia.
È nella comune consapevolezza che il risultato di un’intercettazione è la sua registrazione ed è quest’ultima a rappresentare la prova del suo contenuto.
Ma questo è un dato puramente formale, un mantra che serve solo soddisfare l’esigenza di classificazione sistematica propria dei giuristi.
La verità è che l’intercettazione prende vita attraverso le parole di chi la racconta.
Ecco quindi che il coordinatore delle indagini deve assumere ancora una volta i panni del narratore.
Gli spetta non solo di spiegare perché sono stati ascoltati questo e quello ma come si è arrivati a capire che erano appunto questo e quello e non quest’altro e quell’altro.
Gli spetta anche decifrare parole e frasi spesso oscure e chiarire urbi et orbi che cosa volessero davvero intendere gli intercettati e quali chiavi di decrittazione siano state usate per capirlo.
Soprattutto, ci deve mettere pathos perché, se usasse toni piatti e monocordi per descrivere quello che ritiene essere un mandato di morte o l’ordine di un danneggiamento o cos’altro, l’efficacia evocativa si smarrirebbe per strada.
Ma tutto finisce e quindi anche i più lunghi e complessi esami degli ufficiali di p.g. a un certo punto si esauriscono.
Dall’udienza successiva inizia però la seconda fase, il controesame delle parti private e tra queste, in prima linea, le difese degli imputati.
C’è un rischio astratto ed è che la rappresentazione impeccabile in sede di esame mostri qualche crepa o addirittura collassi per via dei controesami.
Solo astratto, appunto.
Il narratore affabile, ispirato e dialogico di prima si trasforma in un osso durissimo dopo.
Risponde in modo arcigno alle domande dei difensori, talvolta addirittura le contesta, entra in competizione con loro, difende a spada tratta i confini tracciati in precedenza, non ammette ed anzi rifiuta con sdegno anche la sola remota possibilità di essersi contraddetto.
Se messo alle strette, prende tempo, chiede di essere autorizzato a leggere i suoi appunti redatti in aiuto alla memoria, scorre e riscorre l’informativa e gli atti allegati e quasi sempre risolve con la frase “è scritto qui e lo confermo”.
Si potrebbe continuare ma il clima che circonda questo primo ed essenziale atto istruttorio è già descritto.
Si badi bene: le considerazioni appena concluse non hanno nulla a che fare con la verità della deposizione; salvo rarissime eccezioni, l’esaminato rende dichiarazioni conformi a ciò che è stato realmente fatto e percepito da lui stesso e dai suoi collaboratori.
Non è questo il punto quindi.
Non lo è neanche la difesa del lavoro compiuto, spesso costato anni di impegno strenuo e talvolta anche rischioso: è assolutamente legittimo che l’investigatore capo creda in ciò che ha fatto e lo preservi.
Il tema cruciale è dunque un altro e precede e prescinde dalle pur condivisibili critiche procedurali di Capone: è la predisposizione di un apparato comunicativo realizzato allo scopo di blindare la tesi accusatoria e farle assumere già all’esordio dell’istruzione dibattimentale una caratura prossima o perfino sovrapponibile alla verità processuale che si dovrebbe raggiungere piuttosto alla fine.
È oggettivamente un rischio.

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