
Avvertenza preliminare
Come d’abitudine per TF, qualsiasi riferimento identificativo alle persone fisiche e giuridiche è sostituito dalle iniziali, a tutela del diritto alla riservatezza degli interessati.
Vicenda
Gli eredi dell’avvocato AP con atto di citazione hanno convenuto in giudizio EIF SPA, il giornalista GLB e AP, direttore del quotidiano IFQ, chiedendone la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale derivato dalla diffusione di una notizia diffamatoria nei confronti del de cuius mediante un articolo di GLB pubblicato su IFQ sia nell’edizione cartacea che in quella telematica.
Il giudice di primo grado ha rigettato la domanda degli attori.
Costoro hanno impugnato la decisione sfavorevole e la Corte territoriale, accogliendo parzialmente il loro appello, ha condannato gli appellati a risarcire, in solido, alle controparti il danno non patrimoniale nella misura di € 30.000 oltre accessori.
I convenuti hanno fatto ricorso per cassazione.
Decisione della Corte di cassazione
Il ricorso è stato assegnato alla terza sezione civile che lo ha deciso con l’ordinanza n. 21969/2020 (camera di consiglio del 23 giugno 2020, pubblicazione del 12 ottobre 2020).
Il collegio ha rilevato in premessa che “La domanda risarcitoria riguardava la presenza, in un articolo pubblicato il 2 giugno 2010 intitolato “Le relazioni pericolose di MDU” e riguardante in particolare un procedimento penale nei confronti di MDU per la strage di Capaci conclusosi con archiviazione del gip del Tribunale di Caltanissetta il 3 maggio 2002, di un riferimento a un bloc-notes sequestrato al D, nel quale – era stato appunto scritto – “sono segnati numerosi contatti intrapresi dall’avvocato catanese P, indagato in passato dalla Dda di Catania per traffico d’armi. In una di queste … si legge: Avv. P per candidature su Catania”. I congiunti dell’avvocato avevano addotto che tale passo, in origine, era davvero presente nel suddetto decreto di archiviazione, ma che, su istanza avanzata dal de cuius il 22 luglio 2005 – cui era allegata una certificazione che l’istante non era mai stato indagato per traffico d’armi né era mai stato indagato dalla DDA di Catania nel procedimento penale n. … -, il gip nisseno aveva emesso un provvedimento di correzione che ne aveva disposto la cancellazione con conseguente annotazione sull’originale e allegazione al decreto per farne parte integrante; quindi la non veridicità della notizia pubblicata in ordine al de cuius, già evidente al momento della pubblicazione sul giornale “IFQ”, avrebbe provocato grave pregiudizio all’immagine di P – come avvocato e come cittadino – e a quella dei suoi congiunti“.
Ha poi ricordato che “Il primo giudice aveva disatteso la domanda, ritenendo che, dinanzi alla fonte informativa rappresentata da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, il giornalista non era onerato di alcuna verifica, non potendosi porre il problema di una correzione del provvedimento, essendo questa una eccezione: pertanto, escluso ogni profilo colposo, non si sarebbe rinvenuta alcuna illiceità. La corte territoriale, invece, ha addebitato al giornalista l’onere di verificare la veridicità della notizia, reputandolo gravante pure in caso dell’esimente rappresentata dall’esercizio del diritto di cronaca anche sotto il profilo putativo: in particolare ha ritenuto che era esigibile da parte del cronista – e la relativa omissione costituiva un atto colposamente illecito – aggiornarsi dopo otto anni dall’emissione del decreto di archiviazione con un particolare controllo sulla persistenza della posizione di indagato di P, poiché nel frattempo egli avrebbe potuto diventare imputato o condannato oppure destinatario di un decreto di archiviazione. Anche il decreto nisseno avrebbe potuto essere revocato. D’altronde non sussisteva alcuna urgenza nella pubblicazione dell’articolo e il giornalista ben poteva informarsi presso i familiari di P. Quest’ultimo, “dopo molti anni”, non poteva essere semplicemente qualificato come “indagato in passato”, per cui, in sostanza, non sarebbe stato sostenibile l’affidamento del cronista alla qualità della fonte informativa e il correlato affidamento del direttore su di lui, in quanto il dovere di verificare la veridicità della notizia non sarebbe stato adempiuto nonostante fosse prevedibile “un evento – addirittura un intervento giudiziale – che privasse la notizia stessa del carattere dell’attualità e la rendesse, quindi, oggettivamente priva di fondamento (e dunque falsa)“.
Il collegio ha esplicitato a questo punto le proprie valutazioni sui motivi di ricorso.
“Il motivo appena riassunto si fonda, in sostanza, sull’asserto che avrebbe errato il giudice d’appello nell’attribuire al giornalista, per poter poi fruire dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, quantomeno a livello putativo, l’obbligo di verificare per l’ampio tempo decorso la posizione del preteso indagato P, in quanto tale a non idonea a stabilizzarsi ma destinata a immutarsi in un’altra. Ciò viene nel motivo desunto da due elementi: il fatto che la fonte era giudiziaria – per cui non vi sarebbe stato alcun onere di controllo in ordine al suo contenuto – e il fatto che la modifica della fonte sarebbe stata imprevedibile e conosciuta/conoscibile soltanto dal “terzo” che l’aveva chiesta. La corte territoriale, in effetti, ha fondato la sua decisione sull’ampiezza del tempo intercorso tra l’emissione del decreto di archiviazione (2002) e la pubblicazione dell’articolo (2010), tenendo conto del fatto che l’elemento estratto dal decreto di archiviazione nei confronti di MDU era l’esistenza di un’indagine nei confronti di P, attività procedurale che, notoriamente, deve sfociare in una conclusione positiva o negativa nei confronti dell’indagato e quindi non permanere stabile a distanza di “molti anni“.
Ha poi definito la natura dell’illecito civile prospettato dagli attori e avallato dalla Corte territoriale:
“Va subito osservato che il giudice d’appello ha ritenuto consumato non un illecito colposo, bensì proprio il reato di diffamazione (come esprime apertis verbis laddove illustra la valutazione degli effetti risarcitori della condotta illecita: “la consumazione del reato di diffamazione lascia presumere la particolare sofferenza morale patita ecc.”). Occorre dunque attenersi all’interpretazione nomofilattica sviluppatasi in ordine alla fattispecie delittuosa di cui all’articolo 595 c.p. Il fondamento reale della doglianza è la natura della fonte da cui il giornalista avrebbe tratto la notizia – dimostratasi poi falsa – relativa a P, tale, ad avviso dei ricorrenti, da creare un’affidabilità peculiare o “privilegiata” già sufficiente a integrare l’esimente quantomeno putativa dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, esonerando da verifiche ulteriori sulla veridicità dei fatti così attestati; a ciò si aggiunge l’argomento – ictu oculi fattuale, e perciò in questa sede non vagliabile – della pretesa imprevedibilità, nel caso concreto, del mutamento del contenuto della fonte, per essere stato questo eccezionale“.
Ha quindi giudicato infondata la tesi dei ricorrenti:
“Si tratta di una prospettazione che contrasta appieno con la giurisprudenza nomofilattica penale relativa appunto alla discriminante, anche putativa, dell’esercizio del diritto alla cronaca giudiziaria in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa. La natura della fonte, invero, secondo un insegnamento che ormai può ben dirsi uniforme, non esonera mai il giornalista dall’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, così da sopprimere ogni dubbio sulla sua veridicità. La scriminante derivante dal combinato disposto degli articoli 51 e 59, primo comma, c.p., anche nella sua forma putativa, esige invero l’adempimento, da parte di chi intende esercitare il diritto che gli farebbe scudo dalla fattispecie penale, di specifici oneri appunto di verifica che investono ogni genere di fonte […] Pertanto nessuna incidenza è attribuibile all’affidamento, anche in buona fede, maturato nei confronti della fonte in sé, occorrendo comunque, da parte di chi intende diffondere, verificare attentamente l’inconsistenza di ogni dubbio (Cass. pen., sez. 5, 11 marzo 2005 n. 15643 insegna che “è configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte”; […] A questo consolidato insegnamento della Suprema Corte penale è coerentemente sintonica anche l’interpretazione nomofilattica civile, la quale infatti ha sempre affermato che, per godere dell’esimente anche putativa del diritto di cronaca, occorre che la notizia sia “frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca”, vale a dire che il giornalista “l’abbia accuratamente verificata” (così, p. es . Cass. sez. 3, 8 febbraio 2007 n. 275)“.
Questo dovere di verifica seria e diligente, secondo il collegio di legittimità, permane anche quando la fonte sia di provenienza investigativa o giudiziaria:
“L’arresto invocato nel ricorso – Cass. sez. 3, 4 febbraio 2005 n. 2271 -, esonerando dall’onere di verifica dell’attendibilità della fonte informativa nel caso in cui “provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria” il fatto da pubblicare, non può non correlarsi a contingenti notizie di cronaca quotidiana sullo svolgimento di indagini e arresti, visto che pone in alternativa “autorità investigativa o giudiziaria” (insegnamento ripreso da Cass. sez. 3, 18 ottobre 2005, nn. 20138 e 20139); ciò comunque non può apportare un esonero assoluto da ogni verifica, bensì conforma quest’ultima alla situazione cronologico-giuridica in cui si rinviene la fonte“.
Quanto al tipo di verifica ed alla sua intensità, il collegio ha chiarito che:
“la verifica che grava sul giornalista ai fini della scriminante deve essere sempre conformata e proporzionata alla fonte della notizia: e, fermo il fatto – del tutto ovvio – che compete al giudice di merito valutare se la verifica sia stata nel caso concreto “seria e diligente” – riprendendo la formula sovente adottata, come appena visto, dalla giurisprudenza nomofilattica per descriverne l’idoneità-, non è certo esigibile dal giornalista, dinanzi ad una notizia di fonte giudiziaria, di “replicare” in toto con una sua inchiesta privata gli esiti dell’indagine pubblica per essere legittimato poi a diffondere questi ultimi (lascia intendere la esclusione della ripetizione della valutazione già operata in sede penale Cass. sez. 3, 18 aprile 2006 n. 8953). Al contrario, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha espressamente riconosciuto che ai fini della scriminante è sufficiente che l’articolo del giornalista corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendosi pretendere che dimostri la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria “e dovendo d’altra parte il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine e istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo e non già a quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale” (così Cass. sez. 3, 9 marzo 2010 n. 5637): insegnamento, quest’ultimo, dal quale, del tutto logicamente, si deve desumere a contrario che il giornalista dovrà effettuare il suo personale scandaglio sulla veridicità della notizia in relazione “a quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale” nel caso in cui (che è l’inverso trattato nel suddetto arresto, e corrisponde a quello qui in esame) si sia percorso un non indifferente tratto di tempo tra l’atto giudiziario e il momento in cui quest’ultimo viene diffuso tramite l’articolo (analogo insegnamento sortisce poi da Cass. sez. 3, ord. 9 maggio 2017 n. 11233 e Cass. sez. 3, ord. 16 maggio 2017 n. 12013). L’individuazione, in conclusione, del contenuto dell’onere di controllo della veridicità come specificamente conformato nella ipotesi in cui la fonte è un atto giudiziario trova un criterio temporale da cui la prospettazione dei ricorrenti richiede un ingiustificato esonero, tenuto conto altresì del fatto che gli atti giudiziari, anche qualora siano decisori, sono suscettibili di variatio e quindi di superamento per fenomeni giuridici sopravvenuti (nel diritto penale, è ovvio che l’archiviazione non attinge neppure al valore del giudicato; lo stesso giudicato penale, poi, può essere oggetto di rescissione; analogamente, il giudicato civile è sensibile alla revocazione). E il vaglio effettuato sulla conformazione del caso concreto dalla corte territoriale attua, nella sua reale sostanza, proprio questo insegnamento di diritto della Suprema Corte“.
Il collegio ha aggiunto infine ulteriori argomenti a sostegno della natura diffamatoria dell’articolo:
“Anzitutto, deve rilevarsi che nell’articolo di cui si tratta non sussiste alcun riferimento al decreto di archiviazione come fonte da cui il giornalista avesse tratto la notizia in ordine al contenuto del bloc-notes e, dunque, anche per questo è privo di pregio l’assunto che su di esso si fosse fatto affidamento.
Peraltro, risalendo il decreto al 2002 ed essendosi riferito il suo contenuto con la precisazione “indagato in passato” e senza menzionare l’archiviazione, la notizia si presentava in sé capziosa, non potendosi riportare che una persona è stata indagata in passato senza nulla dire dell’esito dell’indagine. Queste circostanze risultano in iure rilevanti per ravvisare l’elemento soggettivo del delitto di diffamazione, una volta rivelatasi non vera la notizia, e ciò al di là dell’omesso controllo della verità della notizia stessa al momento in cui venne riferita.
Venendo poi a tale controllo, sempre sul piano dell’apprezzamento della vicenda in iure, si deve osservare che era necessario, piuttosto che per il tempo trascorso – otto anni – dalla pronuncia del decreto di archiviazione, per due ragioni.
In primo luogo, per l’opponibilità del decreto di archiviazione: dunque, per apprezzarne il contenuto non si poteva omettere di controllare se era stato opposto. È palese che l’opposizione avrebbe potuto apportare dati incidenti sulla notizia contenuta nel decreto e riferibili a P. In secondo luogo, perché – e soprattutto – l’archiviazione produce effetti risolvibili mediante il decreto motivato con cui il giudice delle indagini preliminari, ai sensi dell’articolo 414 c.p.p., autorizzi “la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove investigazioni”. E tale decreto, dovendo rendere spiegazioni sulla riapertura delle indagini, potrebbe indicare elementi idonei ad incidere sul contenuto di pretesa verità giudiziale offerto nel precedente decreto di archiviazione. Queste due ragioni – in generale, e cioè sempre su un piano in iure rilevante in termini di esatta sussunzione della fattispecie concreta nell’effettivo paradigma normativo – comportano che, qualora si riferisca una notizia potenzialmente lesiva dell’onore e della reputazione di una persona, emergente da un decreto di archiviazione ex articolo 409 o ex articolo 410 c.p.p., il giornalista controlli, nel caso di cui all’articolo 409 c.p.c., se il decreto sia stato opposto, e in ogni caso se al decreto non sia sopravvenuta la riapertura delle indagini ai sensi dell’articolo 414 c.p.p., giacché entrambe le evenienze si prestano a incidere, per quanto come eventualità, sull’attualità e sulla verità del decreto di archiviazione. Inoltre, la stessa possibilità, garantita dall’articolo 130 c.p.p., che un decreto di archiviazione possa essere corretto per errore materiale e, parimenti, la previsione, rinvenibile nell’ultimo comma di detto articolo, che la relativa ordinanza – esito di un rito camerale partecipato ex articolo 127 c.p.p., e quindi frutto di un pieno contraddittorio, per così dire, attuale – deve annotarsi sul provvedimento in tal modo corretto esigono che, in generale, se si riferisce il contenuto di un provvedimento del giudice delle indagini preliminari, si tenga in conto la possibilità di correzione, onde occorre sincerarsi del contenuto del provvedimento di cui si dà notizia immediatamente prima della sua diffusione“.
Per tutte queste ragioni i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso e condannato i ricorrenti alla rifusione delle spese di giudizio.
Commento
La decisione della terza sezione civile è condivisibile senza riserve in quanto fondata su un percorso argomentativo e su un bilanciamento di interessi ineccepibili.
Serve da monito a un certo tipo di giornalismo che nel caso in esame ha sacrificato il dovere di verifica a vantaggio di una notizia evocativa di un inesistente passato torbido.

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