
La cassazione sezione 6 con la sentenza numero 45074 depositata il 25 novembre 2022 ha ribadito l’insussistenza dell’automatismo della misura custodiale in carcere per i reati associativi in materia di stupefacenti.
La Suprema Corte ha evidenziato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 231 del 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
In proposito, la Corte costituzionale ha precisato che il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, a differenza della fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, né l’esistenza di radicamenti sul territorio o di particolari collegamenti personali e, soprattutto, di specifiche connotazione del vincolo associativo.
Da ciò ha desunto che mancano nella fattispecie associativa in tema di stupefacenti connotazioni tali da giustificare una regola di esperienza, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari.
Di seguito, la stessa Corte costituzionale (sent. n. 45 d el 2014), sebbene in una sentenza di rigetto per manifesta infondatezza, dopo aver ribadito che «l’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990 prevede una speciale disciplina di favore per le persone tossicodipendenti e alcool-dipendenti gravemente indiziate di reato, derogatoria rispetto ai criteri generali di scelta delle misure cautelari personali delineati dal codice di procedura penale», ha precisato che «tale regime cautelare di favore, però, non è applicabile, ai sensi del censurato comma 4 dell’art. 89, per determinati delitti di particolare gravità e allarme sociale elencati dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, tra i quali vi rientra anche il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 dello stesso decreto, contestato nel giudizio a quo».
Ha inoltre aggiunto che “il vulnus ai principi costituzionali insito in tale ultima assetto normativo è stato, tuttavia, rimosso dalla sentenza n. 231 del 2011 con la quale si è dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasta con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentiva di applicare misure cautelari diverse da quella carceraria alla persona gravemente indiziata del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in presenza di elementi concreti che permettono di ritenere soddisfatte le esigenze cautelari anche con misure meno afflittive”.
Per tale ragione, oggi deve ritenersi superato ogni rigido automatismo nel ricorso alla misura della custodia cautelare (anche) in relazione alla fattispecie associativa in materia di stupefacenti. Soprattutto se sollecitata, per contro, si rende necessaria una motivazione circa la concretezza delle ragioni cautelari che renderebbero ineludibile il ricorso al regime custodiale.
Il giudice è cioè tenuto a spiegare il motivo per cui, nel caso concreto, esigenze cautelari non possano essere soddisfatte attraverso gli arresti domiciliari, ove l’indagato tossicodipendente abbia manifestato il serio e documentato intento di sottoporsi ad un programma terapeutico, viepiù laddove uno specifico programma risulti già redatto e sia possibile, dunque, valutarne l’adeguatezza in una prospettiva di bilanciamento tra opposte esigenze (quelle cui è preposta la custodia cautelare e la tutela della salute del tossicodipendente).
Né sarebbe congruo distinguere tra valutazione delle esigenze cautelari da operare nella sola fase genetica della vicenda e analisi relativa ad un momento successivo, avendo la legge stabilito che l’affidamento alla comunità può essere disposto anche in via di sostituzione (art. 89, comma 2, d.P,R. n. 309 del 1990): una preclusione riferita alle situazioni in cui la custodia cautelare sia già in esecuzione frustrerebbe, all’evidenza, le finalità dell’assetto normativo, quale configurato dalle sentenze della Corte costituzionale.
Come rilevato nel caso in esame la vicenda processuale a partire dalla quale la Corte costituzionale si è espressa con la sentenza n. 45 del 2014 riguardava, d’altronde, appunto la possibile sostituzione della custodia cautelare con gli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica, in una situazione in cui l’indagato era già sottoposto alla prima: in una vicenda, dunque, analoga a quella oggetto del presente giudizio.
Tutto ciò precisato, il Collegio ritiene che l’ordinanza impugnata non si confronti con il sistema risultante dagli indicati interventi della Corte costituzionale.
Dal provvedimento si evince come l’indagato avesse formulato la prima istanza di sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari immediatamente dopo l’inizio della custodia cautelare, adducendo di essere gravemente tossicodipendente e che intendeva intraprendere, presso una comunità terapeutica, il programma socio-riabilitativo predisposto dal SERT di Catania.
L’ordinanza rileva inoltre che il Giudice dell’udienza preliminare aveva rigettato la richiesta, osservando come la contestazione dell’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 precludesse l’applicazione dell’art. 89 del medesimo testo legislativo.
Il Tribunale di Caltanissetta, in qualità di giudice del riesame, ha confermato, a sua volta, questa impostazione ribadendo che l’ipotesi associativa configura un reato ostativo all’applicazione dell’art. 89 d.P.R. n. 309 del 1990.
Il Tribunale per il riesame si è ritenuto, cioè, esentato dall’obbligo di rispondere alle deduzioni dell’appellante, sulla base del presupposto che tale valutazione debba essere circoscritta alla fase genetica della vicenda cautelare.
Tuttavia, per quanto precede, tale presupposto è erroneo, dal momento che la valutazione sulla mancata emersione di specifici elementi da cui desumere la possibilità di sostituire la cautela con altra meno afflittiva, laddove ciò si renda utile al recupero terapeutico dell’indagato, deve riferirsi anche alla fase successiva all’applicazione della misura custodiale.
Ne deriva che il Tribunale di Caltanissetta si è sottratto all’obbligo di motivare la persistente sussistenza di esigenze cautelari che non siano soddisfacibili anche mediante la misura degli arresti domiciliari con affidamento dell’indagato tossicodipendente ad una comunità di recupero terapeutico. Pertanto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al giudice competente.

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