
In carcere a San Vittore: un vecchio criminale lo incontra al passeggio, lo guarda con gli occhi sbalorditi e gli dice: “Avvocato, adesso che vedo qui lei, ho l’impressione di essere un galantuomo anch’io”.
Nel 1907 a Milano un gruppo di avvocati costituiva un Ufficio di Assistenza legale per i poveri di Milano.
Lo scopo era per “proteggere gli indigenti da cavallocchi sfruttatori, consigliarli ed assisterli nelle vertenze che insorgono, salvarli in tempo dall’avventurarsi in liti disastrose”.
In realtà, un analogo servizio – l’Avvocatura dei poveri – era stato introdotto dallo Stato italiano già nel dicembre del 1865, ma nel giro di pochi anni gli uffici degli avvocati e i procuratori dei poveri retribuiti dall’erario erano stati soppressi e non erano stati sostituiti da nessun altra iniziativa, che potesse frenare il ricorso alla giustizia ordinaria per valere le proprie ragioni.
Fin dalle prime settimane, intorno al gruppo proponente (uno su tutti, l’avvocato Enrico Gonzales) si formava una schiera di volonterosi professionisti, alieni da ogni idea di lucro o di réclame, desiderosi solo di salvare il povero dalle notissime male arti di “professionisti meno onesti e di pseudo patrocinatori da corridoio”, e di offrire, disinteressatamente, il patrocinio in sede penale, l’assistenza in sede civile, od anche il semplice consiglio che valesse a distrarlo “da pericolose manie di litigiosità”.
In soli otto anni di vita (dal luglio 1907 al dicembre 1914) l’Ufficio di Assistenza legale per i poveri avrebbe decuplicato i suoi interventi, passando da 367 a 4.446 cause (tra penale, civile, amministrativo.
Lo scoppio della prima guerra mondiale pose fine all’esperienza solidaristica. Il ricordo degli avvocati dei poveri ci permette di parlare di Enrico Gonzales, brillante avvocato milanese.
Iniziò la sua pratica di giornalista nel 1903 scrivendo per la rivista socialista pavese La Plebe e dopo la laurea in legge iniziò una brillante carriera forense.
A trentadue anni fu consigliere provinciale di Milano e presidente del Consiglio Provinciale di Milano sino al 1923. Dal 1922 al 1924 divenne anche consigliere comunale di Milano. Difese legalmente Benito Mussolini, direttore dell’Avanti! che era stato querelato per diffamazione, ottenendone l’assoluzione.
Lo difese anche nel 1915, quando il futuro duce era divenuto direttore del Popolo d’Italia, ed era stato querelato ancora una volta per diffamazione e anche in questo caso Mussolini fu assolto. Alle elezioni politiche anticipate del 15 maggio 1921 fu eletto Deputato per il Partito Socialista nella circoscrizione Milano – Pavia. Partecipò il 4 ottobre 1922 al congresso in cui si costituì il Partito Socialista Unitario (PSU). Il 27 gennaio 1924, a Genova.
Si era appena aperta la campagna elettorale per le elezioni politiche e Gonzales venne aggredito da un gruppo di squadristi e venne ricoverato in ospedale per una decina di giorni. Venne eletto deputato per il Partito Socialista Unitario. Il 30 maggio Giacomo Matteotti nel suo intervento pronunziato alla Camera dei Deputati in cui denunciò i brogli elettorali fascisti fece anche riferimento alle violenze subite da Gonzales.
Lo stesso avvocato socialista, il 12 giugno 1924, due giorni dopo il rapimento di Matteotti tenne un infuocato discorso alla Camera in cui attaccò Mussolini dichiarandolo responsabile della scomparsa del deputato Matteotti. Gonzales si distinse per la passione intensa e il forte impegno tra gli aventiniani.
Fu un fedele amico di Filippo Turati contò sempre su di lui nella battaglia politica perché fu un uomo affidabile, coerente e onesto. Il 13 luglio 1925 si celebra a Firenze il processo ad Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini per la pubblicazione clandestina del periodico antifascista “Non Mollare”.
Gonzales si recò a Firenze per solidarietà nei confronti degli imputati e dei difensori Nino Levi e Ferruccio Marchetti. All’uscita del Tribunale, dopo il proscioglimento degli imputati, avvocati ed amici furono selvaggiamente aggrediti dalle squadracce fasciste.
Gonzales finirà in ospedale in seguito alle gravi ferite riportate. Nel novembre 1926 sono promulgate le leggi liberticide e vengono sciolte le Camere, cosicché anche Gonzales decadde dalla carica di Deputato. Nel dicembre 1926 passa alcuni giorni a San Vittore, accusato di complicità nell’espatrio di Turati.
Nel 1927 decise di lasciare l’Italia e riparare in Grecia e dopo in Turchia. Scelse comunque di ritornare in Italia e di dedicarsi esclusivamente alla professione legale, non collaborando mai con il regime fascista e preservando fieramente la propria indipendenza morale. Sin dagli anni trenta Gonzales è impegnato in numerosi processi e uno dei più noti è quello celebrato a Milano nel 1941 in cui sono imputati i Frati di Erba, accusati di avere rapito e ucciso la donna di servizio Fiora Rigamonti.
Dopo la fine del fascismo e dal 1945, ripristinata la vita democratica, Gonzales è chiamato a fare parte della Consulta Nazionale per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e ricominciò la sua attività politica. Nel 1946 rifiuta la candidatura all’Assemblea Costituente.
Nel 1965 il primo di Luglio morì lasciando un vivo rimpianto e uno splendido ricordo in chi l’ha conosciuto.
Il 7 luglio alla camera dei deputati viene ricordato dall’onorevole Greppi con queste parole: Signor Presidente, onorevoli colleghi, ricordiamo, a sette giorni dalla morte, Enrico Gonzales, due volte deputato, nel 1921 e nel 1924, senatore dopo la liberazione. Il suo nome non è legato soltanto alla storia della grande eloquenza forense (la «nuova» eloquenza forense, fondata sul rapporto di confidenza morale col giudice) ma anche, e più ancora, alla storia politica italiana, la più tragica e gloriosa del nostro tempo. Sono due storie che irresistibilmente si richiamano e si compenetrano in una unità di vita non meno reale che sorprendente.
Come ho scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale: “con una sintesi che vuoi prendere, anch’essa, ispirazione da lui, diremo che la su a vita è stata la difesa di una sola, grande causa: la causa della giustizia nel senso più alto e completo, legale e sociale”.
La giustizia degli uomini per gli uomini, e dunque la loro libertà. La testimonianza è in alcuni processi di superiore importanza morale e storica. Processo Matteotti, con quella rinunzia alla costituzione di parte civile, nel nome della moglie e dei figliuoli del martire, accompagnata da una motivazione più coraggiosa e sferzante di ogni pur spietata requisitoria.
Pregiudiziale scetticismo nella giustizia del regime, atto di fede nella vindice giustizia della democrazia.
Processo di palazzo d’Accursio, con una perorazione che voleva essere un monito e un messaggio: “Bisogna essere giusti coi giusti e giusti con gli ingiusti, perché questa è la vera giustizia; bisogna essere buoni coi buoni e coi meno buoni, perché questa è la vera bontà” .
Processo di Firenze ai redattori del Non mollare, l’epico foglio di Rosselli e di Salvemini. Erano con lui, tra gli altri, Console e Pilati, che dovevano cadere poco dopo in una atroce rappresaglia dalla quale si è salvato miracolosamente il nostro Targetti. La testimonianza è in non pochi discorsi politici, il più alto e il più civile dei quali riecheggia qui, ancora, dopo oltre quarant’anni, e proprio da questi stessi banchi. Gli erano vicini Filippo Turati, Claudio Treves e molti degli altri più fedeli compagni. Era scomparso Giacomo Matteotti. Egli si alza, con superiore fierezza, ed esordisce con quel “dunque, è vero”, che doveva assumere un significato simbolico (la logica fatale del regime!).
“Dunque, è vero! In Roma, sede del Parlamento, e a Camera aperta, un deputato dell’opposizione ha potuto essere aggredito, rapito, e al terzo giorno dal fatto, mentre la seduta continua, non sappiamo se, ci sarà restituito”.
L’anno dopo saluterà, ancor più intrepido, Anna Kuliscioff, al Cimitero monumentale di Milano. Lo vedo eretto e imperturbabile sulla gradinata del Famedio, durante l’esplosione selvaggia e profanatrice della rabbia dei fascisti, sorpresi dall’immensa e inaspettata manifestazione di popolo. E questo fu l’esordio: “Non è il luogo di fare discorsi. Se noi erigessimo tribuna di libertà di parola nel cimitero, umilieremmo noi stessi”.
E questo fu il commiato: “Avanti, compagni! Avanti, Filippo Turati, grande cireneo della nostra idea. Riprendi la croce. Oh come più leggera quando l’Anna camminava al tuo fianco! Avanti maestro! Veramente la tua ora eroica incomincia. Tu non sei più di te stesso: sei della storia del tuo paese, se i della storia dei lavoratori, che saranno redenti. Signora Anna, signora Anna, fate che siamo degni di voi, dateci la forza di continuare, e voi riposate in pace e nella grazia di Dio”.
Un altro anno, ed egli sarà in carcere per l’espatrio di Turati. E qui accade una cosa unica, stupenda. Un vecchio criminale lo incontra al passeggio, lo guarda con gli occhi sbalorditi e gli dice: “Avvocato, adesso che vedo qui lei, ho l’impressione di essere un galantuomo anch’io”.
La testimonianza è nella sua fierezza personale. Non meno eretto e imperturbabile lo rivedo a Genova in una giornata elettorale dell’aprile del 1924, sotto la furia dei manganelli degli studenti universitari che, con sinistra intransigenza, avevano giurato, di non lasciarlo parlare.
Ed egli tacque soltanto quando l’ultimo colpo lo fece cadere con la testa letteralmente fracassata.
Il suo sangue si confuse, quel giorno, con quello di Raffaele Rossetti, l’affondatore della Viribus Unitis.
È un episodio che ha meritato la citazione di Matteotti, qui, il 30 maggio nel discorso consacrato alla storia del martirio del 10 giugno.
Qualcuno certo lo ricorda ancora. Protestavano, urlando, alcuni deputati fascisti che si trattava di una mistificazione.
E così li aveva rimbeccati Matteotti con quell’umorismo, pacato e corrosivo, che gli era connaturale: “E va bene: Enrico Gonzales è notoriamente devoto a san Francesco; diremo dunque che si è autoflagellato”.
Chi volesse saperne di più di questa bellissima storia, può consultare gli atti della Camera, a questo link.

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