Nomina fiduciaria: non dimostra l’effettiva comprensione e conoscenza della lingua italiana e non giustifica la mancata traduzione del decreto citazione a giudizio. Violazione articoli 143 e 178 lett. C) c.p.p. (di Riccardo Radi)

Tribunale di Roma, sezione 5, giudice monocratico, udienza del 25 novembre 2022.

Per garantire l’esercizio dei diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento non è dato presumere la conoscenza della lingua italiana dalla circostanza che l’imputato abbia provveduto alla nomina fiduciaria o sottoscritto istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato quando emergono concludenti circostante contrarie dagli atti del fascicolo del PM.

La mancata conoscenza della lingua italiana si presume e deve essere data rigorosa e pacifica dimostrazione dell’effettiva conoscenza della stessa da parte dell’indagato-imputato.

Il tribunale di Roma con ordinanza ha rilevato la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (ex 415 bis cpp e del decreto di citazione a giudizio (ex art. 552 c.p.p.) disponendo la restituzione degli stessi alla Procura rilevando l’omessa traduzione degli stessi all’imputato di nazionalità indiana che dal verbale di fermo risultava non comprendere la lingua italiana e al momento del suo ingresso in carcere analoga segnalazione veniva redatta dal personale penitenziario.

La successiva nomina fiduciaria e la sottoscrizione dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello stato non superano la presunzione che l’indagato/imputato non comprenda la lingua italiana.

La decisione commentata si discosta dalla giurisprudenza della Suprema Corte per la quale la nomina del difensore di fiducia comporta l’insorgere di un rapporto di “continua e doverosa informazione” da parte del legale verso il cliente, che comprende non solo la tempestiva informazione sugli atti processuali che interessano il proprio assistito, ma anche “l’obbligo-onere di traduzione degli atti nella eventuale diversa lingua del cliente alloglotta o, quantomeno, di farne comprendere allo stesso comunque il significato”.

Invero, la decisione di merito segnalata riprende la recente sentenza della cassazione sezione 3 numero 41108 depositata il 2 novembre 2022 che ha esaminato la questione controversa della rilevanza del rapporto fiduciario che lega l’indagato al suo domiciliatario, quand’anche lo stesso sia il difensore di fiducia, che comporta a carico di quest’ultimo solo l’obbligo di ricevere gli atti al primo destinati e di tenerli a sua disposizione (Sez. 3, n. 22844 del 26/5/2003, Rv. 224870), ma non di certo, come sostenuto dal contrario indirizzo ermeneutico, anche l’obbligo-onere di traduzione degli atti nella diversa lingua del cliente alloglotta, o di farne comprendere al suo assistito il significato.

Sul punto ripercorriamo la frastagliata e controversa giurisprudenza di legittimità in materia di traduzione degli atti processuali e conseguenti nullità nei giudizi di merito.

In primo luogo, l’orientamento che esclude l’obbligo di traduzione degli atti in favore dell’imputato alloglotta che abbia eletto domicilio presso il difensore di fiducia, non verificandosi in tale ipotesi alcuna lesione concreta dei suoi diritti (tra le altre, Sez. 2, n. 20394 del 7/4/2022, Rv. 283237; Sez. 5, n. 57740 del 06/11/2017, Rv. 271860; Sez. 2, n. 31643 del 16/03/2017, Rv. 270605). Questo indirizzo è stato inizialmente declinato con riferimento alla condizione processuale dell’imputato alloglotta irreperibile o latitante.

Si è, infatti, affermato che le regole sulla nomina dell’interprete e sulla traduzione degli atti sono funzionali alla garanzia della corretta comprensione di ciò che accade nel processo, sempre che lo straniero partecipi o intenda parteciparvi attivamente e voglia comprendere ciò che in esso accade, in modo da poter valutare personalmente le strategie processuali che ritiene di intraprendere (così, testualmente, Sez. 6, n. 47550 del 13/11/2007).

L’obbligo di traduzione degli atti è stato, pertanto, escluso nell’ipotesi in cui l’imputato alloglotta che non comprenda la lingua italiana si sia reso latitante o irreperibile, così da imporre la notificazione degli atti processuali che lo riguardano mediante consegna al difensore, non verificandosi in tal caso alcuna lesione concreta dei suoi diritti (tra le tante, Sez. 6, n. 47896 del 19/06/2014, Rv. 261218; Sez. 6, n. 328010 del 11/06/2009, Rv. 244429; Sez. 6, n. 47550 del 13/11/2007, Rv. 238224).

Lo stesso principio è stato successivamente ribadito, sempre in relazione alla condizione processuale dell’imputato irreperibile o latitante, anche a seguito della riformulazione dell’art. 143 cod. proc. pen., da Sez. 2, n. 12101 del 17/02/2015, Rv. 262773.

In tale pronuncia la Corte ha affermato che l’obbligo di traduzione degli atti, anche quello previsto dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32 in attuazione della Direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, ha un senso unicamente rispetto agli atti processuali cui l’imputato alloglotta partecipi personalmente o che comunque giungano nella sua sfera di conoscenza o di conoscibilità, in quanto soltanto in queste ipotesi acquista rilievo l’esigenza di assicurare la piena comprensione degli atti stessi da parte del prevenuto che non conosca la lingua italiana.

Al fine di evitare prassi abusive riconducibili alle ipotesi di volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o di suoi specifici atti, la Corte ha, invece, escluso la sussistenza dell’obbligo in questione quando gli atti debbano notificarsi al solo difensore, ritenendo che, in tali casi, il destinatario della comunicazione sia perfettamente in grado di comprenderne il contenuto e, eventualmente, di riferirlo al proprio assistito, qualora mantenga dei contatti con quest’ultimo, nella lingua da essi prescelta.

L’orientamento in esame ha, infine, registrato un’ulteriore progressione ermeneutica con la sua estensione, non solo ai casi di latitanza o di irreperibilità dell’imputato, ma anche alle ipotesi in cui lo stesso abbia eletto domicilio presso il difensore di fiducia (Sez. 2, n. 31643 del 16/03/2017, Rv. 270605; Sez. 5, n. 57740 del 06/11/2017, Rv. 271860).

In particolare la sentenza Ramadan, richiamando quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 136 del 2008, ha affermato che la nomina del difensore di fiducia comporta l’insorgere di un rapporto di “continua e doverosa informazione” da parte del legale verso il cliente, che comprende non solo la tempestiva informazione sugli atti processuali che interessano il proprio assistito, ma anche «l’obbligo-onere di traduzione degli atti nella eventuale diversa lingua del cliente alloglotta o, quantomeno, di farne comprendere allo stesso comunque il significato».

A fronte di questo indirizzo, poi, se ne riscontra un altro che, ponendosi in contrasto con le più recenti pronunce sopra esaminate, ha affermato che l’obbligo di traduzione dell’atto in favore dell’imputato alloglotta sussiste – a pena di nullità ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen. – anche nel caso in cui egli abbia eletto domicilio presso il difensore, avendo quest’ultimo solo l’obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello di procedere alla loro traduzione (Sez. 1, n. 28562 dell’8/3/2022, Rv. 283355; Sez. 1, Sentenza n. 23347 del 23/03/2017, Rv. 270274 in tema di notifica dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari; Sez. 5, n. 48916 del 28/09/2016, Rv. 268371).

Secondo tale orientamento, infatti, l’elezione di domicilio presso un difensore attiene solo alle modalità di notificazione degli atti processuali e non comporta la rinuncia dell’indagato alloglotta alla traduzione degli atti nella propria lingua (diritto previsto dall’art. 143 cod. proc. pen., in attuazione della Direttiva 2010/64/UE ed in accordo con l’articolo 6, par. 3, lett. a), CEDU), né alla lettura ed all’esame degli atti che lo riguardano (necessari per la predisposizione di una più efficace difesa), svolgendo tale elezione, soprattutto ove si tratti di individuo privo di recapiti stabili, la funzione opposta di garantirgli una più sicura conoscenza degli stessi.

Attraverso l’elezione di domicilio, dunque, l’indagato sceglie sia il luogo (come nel domicilio dichiarato) che la persona alla quale devono essere notificati gli atti processuali (Sez. 6, n. 30873 del 18/09/2020, Rv. 279850).

Tuttavia, il rapporto fiduciario che lega l’indagato al suo domiciliatario, quand’anche lo stesso sia il difensore di fiducia, comporta a carico di quest’ultimo solo l’obbligo di ricevere gli atti al primo destinati e di tenerli a sua disposizione (Sez. 3, n. 22844 del 26/5/2003, Rv. 224870), ma non di certo, come sostenuto dal contrario indirizzo ermeneutico, anche l’obbligo-onere di traduzione degli atti nella diversa lingua del cliente alloglotta, o di farne comprendere al suo assistito il significato.

Tanto premesso, il Collegio ritiene di aderire al primo indirizzo.

La Direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, stabilisce – all’art. 3, comma 1 – che gli Stati membri assicurano che gli indagati o gli imputati che non comprendono la lingua del procedimento penale ricevano, entro un periodo di tempo ragionevole, una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento; tra questi, le decisioni che privano una persona della propria libertà, gli atti contenenti i capi d’imputazione e le sentenze (comma 2), oltre a qualsiasi altro atto che le autorità competenti decidano essere fondamentali (comma 3).

Con la precisazione, peraltro, che non è invece necessario tradurre i passaggi di documenti fondamentali che non siano rilevanti allo scopo di consentire agli indagati o agli imputati di conoscere le accuse a loro carico (comma 4).

In attuazione di questa Direttiva, il d. lgs. 4 marzo 2014, n. 32 ha modificato l’art. 143 cod. proc. pen. (Nomina dell’interprete), così stabilendosi che – a fronte di un indagato o imputato che non comprende la lingua italiana l’autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell’informazione di garanzia, dell’informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna.

Ebbene, tale elenco, deve essere interpretato proprio nell’ottica della Direttiva di cui la novella costituisce attuazione, ossia come indicazione di quegli atti – e solo di quelli – che sono fondamentali per garantire l’esercizio dei diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento, e proprio per questo debbono esser tradotti all’indagato/imputato che non comprende la lingua italiana; della piena aderenza alla fonte sovranazionale, peraltro, lo stesso articolo 143 offre due significative conferme, che meritano di essere valorizzate nell’esame della questione proposta.

In primo luogo, il citato comma 1 sottolinea che la traduzione deve avvenire “entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa“; il comma 3, poi, stabilisce che il giudice può disporre, con atto motivato, la traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, “ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico“.

Il carattere strumentale della traduzione rispetto ad un concreto ed effettivo esercizio del diritto di difesa, dunque, è affermato e ribadito dalla norma in modo esplicito, e solo in questi termini deve essere allora interpretato il richiamo, al comma 1, ai “decreti che dispongono (…) la citazione a giudizio“: non una mera vocatio in ius, ma solo quegli atti che – insieme a questa – contengono elementi di sostanziale rilievo per il merito della difesa e, dunque, per le strategie processuali da intraprendere.

Tra questi, il decreto che dispone il giudizio di cui all’art. 552 cod. proc. pen., che deve contenere, tra l’altro, l’enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge (lett. c); l’avviso che l’imputato ha facoltà di nominare un difensore di fiducia e che, in mancanza, sarà assistito dal difensore di ufficio (lett. e); l’avviso che, qualora ne ricorrano i presupposti, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può presentare le richieste previste dagli articoli 438 e 444 ovvero presentare domanda di oblazione (lett. f); l’avviso che il fascicolo relativo alle indagini preliminari è depositato nella segreteria del pubblico ministero e che le parti e i loro difensori hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia (lett. g).

Per contro, non rientra tra gli altri decreti “che dispongono la citazione a giudizio”, di cui all’art.143, comma 2, cod. proc. pen., quello di citazione a giudizio in appello, il cui contenuto si esaurisce nella mera vocatio, ossia nell’elenco dei requisiti previsti dall’art. 429, comma 1, lett. a), f), g) (rispettivamente, generalità dell’imputato, delle altre parti private e dei difensori; luogo, giorno ed ora della comparizione; data e sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che l’assiste), nonché nell’indicazione del giudice competente.

Nessun elemento, dunque, che concerna il concreto esercizio delle facoltà difensive, peraltro ampiamente sviluppate proprio con la proposizione dell’atto di appello; ancor più, poi, quando – come nella vicenda in esame – il decreto di citazione sia stato notificato ad un difensore fiduciario presso il quale il ricorrente aveva eletto domicilio, ossia ad un professionista legato al proprio assistito da vincolo di particolare intensità, dal quale deriva l’obbligo non solo di ricevere l’atto destinato al proprio assistito, ma anche di fornirgliene pronta e sommaria comunicazione quanto al contenuto.

La motivazione della sentenza sul punto, dunque, non può essere censurata, facendo corretta applicazione proprio dei principi appena richiamati.

E fermo restando, peraltro, che il ricorrente non contesta alcuna, effettiva lesione alle proprie prerogative difensive, eventualmente derivante dalla mancata traduzione del decreto di citazione in appello, cosicché la sua censura risulta rivestire un carattere meramente formale, astratto, non riconducibile alla ratio della Direttiva richiamata e dell’art. 143 cod. proc. pen. novellato.

Né, peraltro, può accogliersi la tesi della violazione dell’art. 6.3 CEDU, che, alla lett. a), prescrive il diritto – in capo alla persona accusata di un reato – di essere informata, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; questa informazione, infatti, attiene ancora al concreto esercizio del diritto di difesa, e, dunque, non è assimilabile al decreto di citazione in appello per quanto appena riportato.