
Decisione commentata e autorità giudiziaria che l’ha emessa
Corte EDU, Prima Sezione, 17 giugno 2021, M. c. Italia
Vicenda
Nel 2013, l’Ufficio elettorale centrale della Regione Molise ha sottoposto ad esame le liste dei candidati per le elezioni regionali dello stesso anno. In una di esse compariva il nome del ricorrente. L’Ufficio ha quindi rilevato che la dichiarazione dello stesso, attestante la mancanza di motivi ostativi alla sua candidatura, non era corretta, poiché dal certificato del casellario giudiziale dell’interessato risultavano tre condanne per reati di abuso di ufficio (art. 323 cod. pen.), l’ultima delle quali passata in giudicato nel dicembre 2011. L’Ufficio elettorale centrale ha pertanto deciso, ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 235/2012 (entrato in vigore il 5 gennaio 2013, che vieta di candidarsi alle elezioni regionali in caso di condanna definitiva per taluni reati, tra i quali quello di abuso di ufficio), di cancellare il candidato dalla lista in cui figurava il suo nome. L’interessato ha impugnato tale decisione dinanzi al TAR e, quindi, al Consiglio di Stato, ma il suo ricorso è stato rigettato. Nel 2017, dopo aver ottenuto la riabilitazione, il ricorrente ha potuto di nuovo presentarsi come candidato alle elezioni regionali. Dinanzi alla Corte EDU egli ha, in primo luogo, lamentato la violazione dell’art. 7 della Convenzione, sostenendo che il divieto di presentarsi come candidato alle elezioni regionali del 2013 – a lui imposto in applicazione del decreto legislativo n. 235/2012 e a causa della sua condanna, divenuta irrevocabile nel 2011, per delitto di abuso di ufficio – costituiva una ulteriore pena, inflitta sulla base di una norma “penale” retroattivamente applicata. Egli ha inoltre dedotto l’intervenuta violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1 (diritto alle libere elezioni), poiché il divieto di candidarsi aveva illegittimamente limitato il suo diritto di elettorato passivo. A tale riguardo, ha rilevato che sulla base dei cosiddetti “criteri di Engel”, ed in particolare quello rappresentato dalla gravità della misura, il divieto di candidarsi alle elezioni regionali deve ritenersi una vera e propria pena. Ad avviso del ricorrente, l’esercizio del potere discrezionale del legislatore ha superato i limiti della ragionevolezza, imponendo una sanzione la cui gravità è resa ancor più evidente dall’assenza di determinazione della relativa durata, a differenza di quanto disposto per i parlamentari nazionali ed europei per i quali la durata della misura “è pari al doppio della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici (…) e comunque non può superare i sei mesi” (art. 13 d.lgs. n. 235/2012). Il ricorrente ha sostenuto che, sebbene condannato in via definitiva nel 2011, non ha potuto concorrere alle elezioni regionali del 2013, né potrà farlo a vita. Inoltre, l’eliminazione del divieto a seguito di intervenuta riabilitazione dimostrerebbe la natura penale del provvedimento applicativo e del divieto imposto.
Decisione della Corte EDU
… Esclusione della violazione dell’art. 7 CEDU
La Corte, fondandosi anche sulle relazioni esplicative della Legge n. 190/2012 e del d.lgs. n. 235/2012, ha ritenuto quanto segue:
- che la scelta del legislatore italiano di subordinare il divieto di candidarsi a funzioni elettive all’esistenza di una condanna irrevocabile per i reati ivi previsti è coerente con l’intervenuto accertamento di una assoluta incapacità funzionale del condannato così come alla conseguente necessità di salvaguardare il buon funzionamento e la trasparenza dell’amministrazione, nonché la libertà decisionale degli organi elettivi;
- l’inclusione del reato di abuso di ufficio tra quelli che giustificano il divieto impugnato tende a rafforzare l’azione di contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nell’amministrazione;
- restrizioni analoghe del diritto di elettorato attivo e passivo erano già in vigore in precedenza;
- nell’Addendum alla relazione di conformità sull’Italia (Greco RC-I / II (2011) 1 E), pubblicato il 1° luglio 2013, il GRECO ha accolto con favore l’adozione della legge n. 190/2012 e i progressi fatti dalle autorità nazionali per chiarire e rafforzare le politiche anticorruzione;
- è dunque condivisibile la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana (e in particolare le sentenze nn. 236/2015 e 276/2016), secondo la quale provvedimenti analoghi a quello impugnato non costituiscono sanzione penale, né effetto penale della condanna, poiché derivano dalla perdita della condizione soggettiva che consente l’accesso alle funzioni elettive e al loro esercizio. Il candidato il cui nominativo è stato cancellato dalla lista a seguito della perdita della sua capacità elettorale passiva non è quindi sanzionato in base alla gravità dei fatti per i quali è stato condannato dal giudice penale, ma perché ha perso l’attitudine morale essenziale per poter accedere alle funzioni di rappresentante degli elettori;
- si tratta quindi di una scelta legislativa che non esula dai limiti di una ragionevole valutazione degli interessi, privati e pubblici, in gioco
- il venir meno del divieto a seguito della riabilitazione del condannato si spiega poi con la necessità di eliminare in tal caso la limitazione al diritto di elettorato passivo in quanto essa, pur avendo il suo presupposto necessario in una sentenza definitiva di condanna (o equiparata, come quella di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen.), non è disposta dall’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale e non rientra tra gli effetti penali della condanna;
- il ricorrente ha potuto impugnare la sua esclusione dinanzi al competente Ufficio elettorale e poi, nel pieno rispetto del principio del contraddittorio, dinanzi al giudice amministrativo;
- quanto alla gravità della misura, essa non consente di per sé di concludere che la “sanzione” abbia natura penale. Pur avendo la perdita del diritto di candidarsi alle elezioni regionali avuto conseguenze politiche per il ricorrente, ciò non può essere sufficiente per qualificare quella misura come sanzione di natura penale, tanto più che nel 2017 il ricorrente ha potuto candidarsi alle nuove elezioni regionali dopo aver ottenuto la riabilitazione e che il suo diritto di voto non è mai stato negato;
- è pertanto escluso che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali previsto dall’articolo 7 del d.lgs. 235/2012 possa essere assimilato a una sanzione penale ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione sicché la relativa censura è irricevibile, in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, respingendola ex art. 35, §§ 3 e 4, della Convenzione.
Esclusione della violazione dell’art. 3, Protocollo 1, CEDU
La Corte EDU ha ritenuto quanto segue:
- il ricorso è ammissibile ma infondato;
- con l’entrata in vigore della Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, è stato rafforzato il potere legislativo delle Regioni. Il nuovo articolo 117 Cost., come modificato dalla citata legge costituzionale, riconosce infatti ambiti di potestà legislativa concorrente delle Regioni, mentre il comma 4 dello stesso art. 117 dispone che in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato la potestà legislativa spetta alle Regioni. Sicché i consigli regionali devono essere considerati” corpo legislativo” ai fini dell’art. 3 del Protocollo n. 1;
- il divieto di candidarsi alle elezioni regionali previsto dall’articolo 7 del d.lgs. 235/2012 comporta la sola perdita del diritto di elettorato “passivo”, mentre l’aspetto attivo del diritto non è in alcun modo attinto;
- l’art. 3 del Protocollo n. 1 garantisce sia il diritto di elettorato attivo che quello di elettorato passivo, ma mentre il diritto di voto (elettorato attivo) comporta solitamente una valutazione più ampia della proporzionalità delle disposizioni giuridiche che prevedano possibili restrizioni, il sindacato sulle misure restrittive del diritto di elettorato passivo si limita a verificare l’assenza di arbitrarietà nelle procedure interne che portino a privare un individuo dell’eleggibilità;
- l’ingerenza prodotta dal provvedimento impugnato nell’esercizio dei diritti elettorali del ricorrente garantiti dall’articolo 3 del Protocollo n. 1 ha dunque perseguito uno scopo legittimo ed è proporzionata:
- il divieto di candidarsi alle elezioni regionali è correlato ad idonee garanzie. Tale divieto ha come presupposto l’esistenza di una sentenza di condanna definitiva (o ad essa equiparata, come la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti) per un certo numero di reati gravi rigorosamente definiti dalla legge. Inoltre, l’art. 3 del Protocollo n. 1 non è limitato da un elenco preciso di obiettivi legittimi. Gli Stati contraenti possono dunque liberamente invocare uno scopo legittimo che non compare tra quelli richiamati negli articoli da 8 a 11 della Convenzione per giustificare una restrizione, a condizione che la compatibilità di questo scopo con i principi propri ad uno Stato di diritto e gli obiettivi generali della Convenzione sia dimostrata nelle circostanze particolari del caso concreto;
- il divieto di candidarsi applicato nel caso di specie è stato introdotto dal legislatore italiano con l’obiettivo di rafforzare l’arsenale di misure preventive della stessa natura già previsto per le elezioni locali dalla legge n. 50/1990 e che l’incandidabilità risponde all’imperativo di assicurare in generale il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni, garanti della corretta gestione della res publica, e di preservare la libertà decisionale degli organi elettivi. Si tratta dunque di obiettivi compatibili con i principi propri ad uno Stato di diritto e con quelli generali della Convenzione;
- quanto all’asserita violazione del principio di prevedibilità della legge per applicazione dell’incandidabilità a seguito della condanna del ricorrente per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo impugnato, tenuto conto dell’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nel limitare la capacità elettorale passiva delle persone, i requisiti dell’art. 3 del Protocollo n. 1 sono meno severi di quelli relativi all’articolo 7 della Convenzione. In questo caso, spettava allo Stato strutturare il proprio sistema giuridico per combattere l’illegalità e la corruzione all’interno dell’amministrazione, sicché l’applicazione immediata del divieto di candidarsi alle elezioni regionali deve ritenersi coerente con la finalità dichiarata dal legislatore, ossia quella di escludere dalle procedure elettorali le persone condannate per reati gravi e proteggere così l’integrità del processo democratico;
- se è vero che il divieto di candidarsi alle elezioni regionali non è limitato nel tempo, nel caso di specie il ricorrente, come ha affermato dinanzi al Consiglio di Stato, aveva chiesto la sua riabilitazione e poi rinunciato a tale richiesta prima della scadenza elettorale del 2013 “per il fatto che il decreto legislativo non era ancora in vigore”. L’interessato ha poi ottenuto la riabilitazione e, conseguentemente, il riconoscimento del diritto a presentarsi alle elezioni regionali del 2017;
- conclusivamente, nel caso di specie non vi è stata violazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1.
Massima
Il divieto di candidarsi ad elezioni regionali imposto in applicazione di una norma (nella specie il d. lgs. n. 235/2012) a causa di una condanna per abuso d’ufficio pregressa rispetto alla norma medesima non è una sanzione penale e non gli si applica pertanto il divieto di irretroattività sfavorevole sancito dall’art. 7 CEDU. Lo stesso divieto non viola il diritto a libere elezioni riconosciuto dall’art. 3, Prot. 1, CEDU, essendo proporzionato allo scopo legittimo perseguito dalle Autorità italiane, individuabile nella tutela del buon funzionamento delle amministrazioni pubbliche, allorché la protezione dell’integrità del processo elettorale giustifica l’immediata applicazione di quella misura, anche se prevista da norma entrata in vigore in data successiva a quella di commissione dei fatti penalmente accertati

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