Riforma in appello dell’assoluzione in primo grado: legittima solo con rinnovazione delle prove dichiarative decisive e motivazione rafforzata

Decisione commentata

Cass. Pen., Sez. 5^, sentenza n. 43481/2022, udienza del 14 ottobre 2022

Questioni giuridiche

La sentenza commentata segue ad un processo nel quale alla decisione assolutoria del primo grado è seguita una decisione di condanna in grado di appello.

Il collegio di legittimità, stimolato in tal senso da uno specifico motivo di ricorso della difesa dell’imputato, ha dovuto pertanto chiarire quali effetti seguano a tale alternanza decisoria.

Lo ha fatto in questi termini:

Alla base di ogni considerazione in tema di progressione processuale sfavorevole, si pone il dato della «ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato, derivante da due sentenze dal contenuto antitetico, pur essendo entrambe fondate sulle medesime prove in correlazione con il principio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”». Entro siffatti parametri si è articolato l’intenso dibattito giurisprudenziale, orientato dai principi convenzionali e costituzionali di riferimento, sfociato in diverse pronunce di questa Corte a Sezioni unite“.

Già nel 2005 le Sezioni Unite sono giunte ad affermare che la sentenza che riformi totalmente, in  senso assolutorio o di condanna, la decisione di primo grado deve delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e, in caso di omissione, l’imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione (Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231674)“.

Si correla a tale principio quello della c.d. motivazione rafforzata, secondo il quale «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U., Mannino, Rv. 231679)“.

La combinazione degli enunciati principi ha consentito alla giurisprudenza di questa Corte di ritenere «che le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24, comma secondo, e 111 Cost. attinenti al pieno esercizio delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione della prova nel contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, siano riconosciute ed assicurate nel giudizio di appello instaurato a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di primo grado» (Sez. U, Mannino, ibidem)“.

Il riconoscimento del “rango sub-costituzionale” delle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e della portata ermeneutica del “diritto consolidato” convenzionale (Corte cost. nn. 348-349 del 22/10/2007 e n. 49 del 14/01/2015) ha impresso un ulteriore e decisivo passo nella definizione dei canoni a cui deve ispirarsi la progressione processuale sfavorevole in seguito alla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011, con la quale la Corte EDU ha ribadito il seguente consolidato principio: «Se una Corte d’Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove [….] La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate [….]»“.

In linea con il suddetto principio di diritto, si è posta la sentenza delle Sezioni Unite n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, che, dopo avere fatto propria la motivazione della Corte EDU in merito ai principi di “contraddittorio”, “oralità” ed “immediatezza” e valorizzato, altresì, da una parte, il principio della motivazione rafforzata e, dall’altra, quello dell’“al di là di ogni ragionevole dubbio”, ha concluso affermando che «il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado», dandosi altrimenti luogo ad un vizio di motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.; regula iuris ritenuta dalle Sezioni Unite necessitata anche dal canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, codificato dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., e dai principi del “contraddittorio”, “oralità”, “immediatezza” nella formazione della prova e “motivazione” del giudice di merito che regolano il processo (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta cit., Rv. 267492). Nella stessa pronuncia, le Sezioni Unite della Corte hanno precisato come la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio, delle prove dichiarative ritenute decisive costituisca una scelta obbligata anche in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado ai soli fini civili, allorché fondata – appunto – su un diverso apprezzamento della prova dichiarativa (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta cit., Rv. 267489; analogamente, nel caso di giudizio abbreviato, cfr. Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 26978701; ancora, sull’overturning ai soli effetti civili, Sez. 6, n. 52544 del 07/10/2016, Rv. 268579)“.

L’elaborazione giurisprudenziale accennata ha costituito la traccia dell’intervento riformatore introdotto con la legge n. 103 del 2017 che, con l’art. 1, comma 58, ha, con decorrenza dal 3 agosto 2017, introdotto nell’art. 603 cod. proc. pen. il comma 3-bis, a norma del quale «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Dalla lettura dei lavori parlamentari e della Relazione governativa, si desume come il legislatore abbia inteso recepire, normandolo, il consolidato principio di diritto enunciato dalla Corte EDU con la sentenza Dan c. Moldavia, alla quale hanno fatto seguito le citate Sezioni Unite “Dasgupta” e “Patalano”. Si è, quindi, data soluzione, a livello legislativo, al tema relativo alla modalità con la quale si deve tutelare il contraddittorio nell’ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione, essendosi stabilito che, relativamente a questa ristretta ipotesi, il contraddittorio dev’essere implementato con il principio dell’oralità anche in appello, perché è questo il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l’intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, giungano ad opposte conclusioni. La ratio legis va rinvenuta, pertanto, nella tutela del contraddittorio posto che «dal lato dell’imputato assolto in primo grado, la mancata rinnovazione della prova dichiarativa precedentemente assunta sacrifica un’efficace confutazione delle argomentazioni svolte nell’appello del pubblico ministero che possa trarre argomenti dall’interlocuzione diretta con la fonte le cui affermazioni siano poste a sostegno della tesi di accusa» (Sez. U. Dasgupta)“.

Affermati questi principi, il collegio decidente li ha ritenuti applicabili anche al contributo conoscitivo offerto dal perito poiché “Le dichiarazioni rese dal perito nel corso del giudizio abbreviato, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicché sussiste per il giudice di appello l’obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale, qualora la riforma della sentenza di assoluzione si fondi sul diverso apprezzamento delle dichiarazioni peritali rese in primo grado (Sez. 6, n. 15255 del 19/02/2020, Rv. 278878, sulla scia di Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Rv. 275112 – 01)“.

Sulla base di queste premesse, il collegio, avendo peraltro rilevato l’avvenuta estinzione per prescrizione del reato contestato al ricorrente, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.

Commento

Come si è visto, la sentenza qui commentata non contiene profili di novità, ponendosi lungo la scia delle varie pronunce delle Sezioni unite (a loro volta ispirate dalla giurisprudenza dei giudici europei dei diritti umani) segnalate dall’estensore.

Del resto, i principi che hanno giustificato la decisione sono condivisibili senza alcuna riserva.

Tuttavia, se la situazione è chiara sul piano teorico, lo è assai meno sul terreno della concretezza.

Tra i plurimi concetti richiamati dal collegio sono posti in primo piano quelli dell’oltre ogni ragionevole dubbio e della motivazione rafforzata.

È bene essere consapevoli che il senso loro attribuito e la loro declinazione pratica sono quantomai mutevoli e vaghi (si rinvia, per chi desiderasse un approfondimento, a La Cassazione e il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio a questo link e a Lost in translation: la motivazione rinforzata e il senso perduto delle parole del giudice di legittimità a questo link, entrambi pubblicati su Filodiritto).

Può bastare a rendere l’idea un passaggio testuale tratto dal secondo degli scritti appena citati che commentava appunto una decisione, precisamente Cass, Pen., Sez. 6^, sentenza n. 37783/2021, incentrata sulla motivazione rinforzata:

Non si useranno giri di parole: non servono e soprattutto rinnegherebbero lo scopo di questo scritto.

Si dirà quindi che la decisione commentata è incomprensibile e quindi inservibile.

Se il compito del giudice è dire il diritto e quello della Suprema Corte è di dirlo in modo chiaro, stabile e prevedibile, questa decisione è disfunzionale a quel compito e per ciò stesso non serve a nulla.

Non un solo suo rigo chiarisce la differenza tra una motivazione ordinaria ed una rinforzata posto che i compiti spettanti al giudice d’appello intenzionato a riformare la sentenza impugnata non differiscono in nulla, fatta eccezione per l’enfasi descrittiva e per l’elencazione didascalica, da quelli che è lecito attendersi assolti dal giudice propenso alla conferma.

A meno che, ma sarebbe davvero impensabile, si ipotizzi che il collegio di legittimità abbia inteso affermare, tanto per fare un esempio, che il giudice della conferma possa indulgere in analisi meno stringenti, approfondite e piene di quelle spettanti al giudice della riforma.

Non una sola proposizione è formulata in modo da consentire al lettore, qualificato o ordinario che sia, di comprendere quale sia il suo esatto significato. Dire, ad esempio, che «il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l’intera vicenda» equivale a non dire nulla perché, al di là della piacevolezza dell’espressione e della sua capacità evocativa di un viaggio da compiere, al viaggiatore non è offerta alcuna guida che lo orienti e prevenga direzioni sbagliate.

E che capacità differenziante si potrà mai attribuire al «nesso di stretta relazione tra la quantità e la qualità delle ragioni espresse nella motivazione del giudice con la quantità e la qualità degli argomenti e delle ragioni espresse dall’impugnante»?

Si apprende poi che il giudice di primo grado e il giudice d’appello non sono «posizionati orizzontalmente rispetto allo stesso materiale di prova» e davvero non sembra una novità rivoluzionaria, tantomeno una linea interpretativa che valga la pena tramandare.

Un capitolo a parte meriterebbero la sovrabbondante aggettivazione (tra gli altri: il già citato stringente, penetrante, rigoroso) che, se da un lato palesa una certa tensione ideale verso mondi geometrici e razionali, dall’altro nulla aggiunge in termini di reale capacità descrittiva, e l’altrettanto intenso ricorso a misuratori di quantità o qualità di sfuggente consistenza (superiore, solido, ragionevole, rassicurante, convincente).

Che rimane allora? L’impressione, lo si è già detto, è che non rimanga nulla sicché sia il giudice della conferma che quello della riforma potranno continuare indisturbati a motivare come meglio crederanno la loro decisione. L’unica differenza è che, nell’immancabile parte della motivazione dedicata ai precedenti, entrambi citeranno la sentenza qui commentata e attesteranno così urbi et orbi la loro devozione all’autorità formale delle parole del giudice nomofilattico, riservandosi ovviamente di attribuirgli il significato che meglio legittima la decisione che avranno preso a prescindere. E così comportandosi, faranno anch’essi quello che si fa di fronte al nulla, ignorarlo“.