La settima sezione penale della Cassazione: lì dove imperano il “contraddittorio cartolare a battute asincrone” e le “motivazioni ai confini dell’ermetismo” (Vincenzo Giglio)

Vicenda

Il difensore di I.P.A. presenta un ricorso straordinario contro l’ordinanza n. 28200/2021 emessa dalla settima sezione penale della Corte di cassazione in esito all’udienza del 28 gennaio 2021.

Si riporta immediatamente di seguito in corsivo il testo integrale e letterale dell’ordinanza impugnata.

ORDINANZA

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio,

letto il ricorso proposto da I.P.A. a mezzo del difensore avverso la sentenza sopra indicata che lo condannava per il reato di calunnia;

rilevato che con tale ricorso si deducono vizio di motivazione e violazione di legge;

letta la memoria depositata dopo la trasmissione del fascicolo a questa sezione;

osserva:

Il ricorso è inammissibile perché, a fronte di specifica motivazione della Corte distrettuale sul punto in fatto riproposto dal ricorso, con motivata conferma dell’apprezzamento di merito del primo Giudice, gli argomenti sviluppati dal ricorso sono diversi da quelli consentiti:

  • l’unico motivo ripete tutte le argomentazioni della impugnazione di merito, cui la corte di appello ha motivato, puntando evidentemente ad una nuova valutazione delle prove, pur a fronte di una motivazione congrua e priva di errori logici. Si colloca, quindi, al di fuori dell’ambito consentito ex articolo 606 cod. proc. pen. Peraltro, la Corte di appello ha ampiamente motivato sulla superfluità della prova esclusa in primo grado e nuovamente richiesta in appello.

Valutate le ragioni della inammissibilità risulta equa la condanna alla pena pecuniaria nella misura dì cui in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3000 in favore della Cassa delle Ammende.

Roma il 28 gennaio 2021

Il difensore di I.P.A. deduce che l’ordinanza impugnata abbia sostanzialmente omesso di valutare entrambi i vizi denunciati nel ricorso.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso straordinario presentato nell’interesse di I.P.A. è assegnato alla seconda sezione penale che lo decide dichiarandolo inammissibile con la sentenza n. 22965/2022 in esito all’udienza del 31 maggio 2022.

Si segnala preliminarmente, come dettaglio a latere, che nella parte iniziale della motivazione l’estensore indica come decisione impugnata l’inesistente ordinanza n. 2820C/2021. Si tratta comunque di un evidente errore di battitura (la C ha preso inavvertitamente il posto del secondo 0).

La motivazione prosegue quindi con una descrizione della funzione del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto.

È uno strumento – si dice – finalizzato non a stimolare la rivalutazione di decisioni del giudice di legittimità ma a rimediare a patologie delle stesse quali la supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o dell’inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita, sempre che la supposizione errata emerga a prima vista. Rientrano nel perimetro applicativo del  ricorso straordinario anche le sviste materiali da intendersi come disattenzioni di ordine meramente percettivo purché abbiano provocato l’omissione di uno specifico motivo di ricorso e questo risulti decisivo.

Proprio a proposito delle sviste materiali così intese, il collegio richiama la decisione Basile delle Sezioni unite penali (sentenza n. 16103/2002) in cui si è chiarito che “l’omesso esame di un motivo di ricorso per cassazione non dà luogo ad errore di fatto rilevante a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen., né determina incompletezza della motivazione della sentenza allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima, ovvero quando l’omissione sia soltanto apparente, risultando le censure formulate con il relativo motivo assorbite dall’esame di altro motivo preso in considerazione, giacché, in tal caso, esse sono state comunque valutate, pur essendosene ritenuta superflua la trattazione per effetto della disamina del motivo ritenuto assorbente, mentre deve essere ricondotto alla figura dell’errore di fatto quando sia dipeso da una vera e propria svista materiale, cioè da una disattenzione di ordine meramente percettivo che abbia causato l’erronea supposizione dell’inesistenza della censura, la cui presenza sia immediatamente e oggettivamente rilevabile in base al semplice controllo del contenuto del ricorso“.

Il collegio, data questa premessa, ne ricava un’ineludibile conseguenza: “Da ciò deriva, da un lato che la verifica del complessivo contenuto motivazionale della sentenza impugnata può dar luogo alla constatazione dell’omesso esame della censura solo ove siano da escludersi le ipotesi della «trattazione implicita» o dell’ assorbimento, dall’altro che a fronte di ciò non possono trovare ingresso le censure di tipo valutativo (nel senso che il ricorrente dissente dalla opinione espressa da questa Corte nella decisione o la ritiene non conferente rispetto alla prospettazione) pur in presenza di interpretazioni delle norme o dei contenuti delle decisioni di merito che si prestino a critiche (come è del tutto evidente che possa essere, data la natura del giudizio, che è operazione intellettuale di ricostruzione del fatto e della norma applicabile al medesimo)“.

Questo rigore applicativo – chiarisce il collegio – ha lo scopo di tutelare, sia pure entro i limiti della ragionevolezza, “lo stesso valore del ‘giudicato’ come fonte di certezza e stabilità delle decisioni giurisdizionali ed il principio di tassatività delle impugnazioni (anche straordinarie), attraverso una corretta ricostruzione logica del significato delle parole utilizzate dal legislatore nel testo della disposizione, ove si indica come rilevante «l’errore materiale o di fatto» con esclusione di profili valutativi o di altre circostanze influenti sul giudizio che potrebbero, se del caso, dare luogo a diversa impugnazione straordinaria (la revisione, regolamentata dall’art. 630 cod. proc. pen.)“.

Conclusa questa prima azione di regolamento dei confini, il collegio avvia la seconda che ha come suo specifico oggetto le ordinanze di inammissibilità emesse dalla settima sezione penale della Corte di cassazione.

Si riporta integralmente questa parte della motivazione, ritenendola interessante ed indicativa di una visione largamente presente nella nostra Suprema Corte: “non può sottacersi che la motivazione (necessariamente molto sintetica) delle ordinanze di inammissibilità, pronunciate in settima sezione, non può avere il medesimo “peso” della motivazione di una sentenza. Vero è che entrambe devono rispondere a motivi dedotti in un ricorso, tuttavia l’ordinanza di inammissibilità si colloca al culmine di una procedura articolata, che ha inizio con l’esame compiuto dai magistrati degli uffici “spoglio” delegati dal Primo Presidente, che rilevano la causa di inammissibilità e la comunicano, tramite la cancelleria, ai difensori; costoro hanno facoltà di presentare memorie a sostegno del ricorso e dell’ammissibilità dei motivi dedotti; quindi il ricorso, sulla base di un contraddittorio cartolare a battute asincrone, ma non per questo meno completo, viene deciso collegialmente, laddove se il collegio non ravvisa la causa di inammissibilità stimata in sede di “spoglio” rimette gli atti alla sezione ordinaria, competente per la fissazione in udienza pubblica o in camera di consiglio partecipata. Si tratta di una procedura rispetto alla quale non pare possa parlarsi di deficit di garanzie, se si riflette sul fatto che è funzionale alla verifica dell’ammissibilità del ricorso: il procedimento interviene in una fase preliminare del giudizio li cassazione, che ha ad oggetto un ricorso su cui incombe una presunzione relativa di inammissibilità, rilevata, in prima battuta, dai consiglieri “spogliatori” delegati dal Presidente; presunzione avversabile e vincibile attraverso la produzione di memorie difensive. Il ricorso stimato come inammissibile non è infatti conforme alla fattispecie normativa processuale e non è quindi idoneo a realizzare un valido rapporto processuale, tanto che il giudice non può che declinare la questione, dichiarando l’inammissibilità. Consegue che la motivazione di questo provvedimento non può non risentire del “tipo procedurale” e della stessa funzione di questo giudizio, che ha un oggetto predefinito: l’inammissibilità. Il che, del resto, risponde allo spirito del legislatore che istituì la settima sezione, con legge n. 128 del 2001; sezione che nasce anche con l’obiettivo di realizzare un effetto deterrente rispetto alla proposizione dei ricorsi meramente dilatori, limitando il numero dei procedimenti in entrata. La struttura e le caratteristiche di una motivazione assolutamente concisa e sintetica consentono di riconoscere (a valle) come alla settima sezione sia attribuito il solo compito di accertare la non idoneità del ricorso ad introdurre il giudizio di cassazione. Compito della settima sezione non è dunque quello proprio della Corte di cassazione, cioè di dare risposte alle questioni giuridiche sollevate nel ricorso, ma quello di verificare l’idoneità del ricorso a costituire il rapporto processuale e ad introdurre al giudizio di legittimità. La motivazione dell’ordinanza di inammissibilità deve conformarsi a tale funzione, distanziandosi dal concetto e dal contenuto della motivazione per come viene intesa in generale, per avvicinarsi ad una censura selettiva del ricorso che operi da sbarramento all’ingresso in cassazione“.

Esaurita anche questa corposa e puntigliosa descrizione dei compiti istituzionali della settima sezione penale, il collegio ha avvertito l’esigenza di considerare il suo più tipico frutto, cioè la motivazione stringata, alla luce dei principi giurisprudenziali affermati dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.

Anche per questo verso, la sua conclusione è stata nel senso dell’inesistenza di qualsivoglia violazione anche solo ipotetica della CEDU ed in particolare del suo articolo 6, § 1: “Una motivazione così intesa non risulta messa in crisi neppure dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha solo stigmatizzato decisioni della Corte di cassazione che frustrano il diritto di accesso al giudizio di legittimità in ragione di una valutazione eccessivamente rigorosa dei ricorsi, incentrata su profili di forma degli stessi. Infatti, nella sentenza Sez. I, 5 ottobre 2021, Succi ed altri c. Italia, la violazione dell’art. 6, S 1, CEDU è stata ravvisata non per la forma o la sinteticità argomentativa della decisione della Corte di cassazione, ma per un’applicazione del requisito dell’autosufficienza del ricorso, tale da determinare la dichiarazione di inammissibilità di un atto di impugnazione per intrinseca inidoneità strutturale, pure essendo possibile comprendere dalla lettura di esso sia l’oggetto e lo svolgimento dei giudizi di merito, sia la portata e il contenuto delle critiche alla sentenza impugnata, formulate nel rispetto delle regole previste dalla legge. Modelli di estrema sinteticità nella redazione delle motivazioni delle decisioni di inammissibilità sono utilizzati in molte Corti Supreme europee di questo continente, peraltro inserite in un contesto assai diverso dal nostro, con numeri complessivi dei ricorsi non paragonabili a quelli trattati dalla Corte di cassazione italiana“.

Conclusa così la parte della motivazione destinata alla messa a fuoco della coordinate teoriche, e ribadito ancora che “la motivazione, necessariamente sintetica (fino ai confini dell’ermetismo) delle ordinanze emesse dalla settima sezione impone di indicare i motivi di ricorso stimati come inammissibili per semplici punti didascalici“, il collegio ha ritenuto finalmente giunto il momento di passare all’esame del ricorso di I.P.A.

Questo è ciò che ha ritenuto di dire: “Con detta ordinanza si è dato atto (per sintesi estrema) della non condivisa violazione di legge denunziata e della inidoneità dei due motivi di ricorso a scalfire il percorso logico posto dalla Corte di merito a fondamento della decisione. Il fulcro oggetto della presente disamina non consiste, del resto, nella valutazione della correttezza e condivisibilità della motivazione resa in occasione della declaratoria di inammissibilità, quanto della effettiva ricorrenza della “svista” che avrebbe condotto a non considerare il motivo o i motivi di ricorso. Nessuna di tali condizioni si ravvisa nel caso in esame, apparendo evidente la riproposizione di un motivo di critica in punto di censura della motivazione della sentenza di appello, già “letto” e stimato inammissibile da questa Corte con la decisione impugnata, che ha ritenuto legittima, congrua e logicamente sostenuta la decisione di merito fondata sull’esame diretto della prova“.

Va da sé che il ricorso è stato dichiarato inammissibile e il ricorrente è stato condannato a pagare 3.000 € a favore della cassa delle ammende.

Commento

Si prova una strana sensazione leggendo questa sentenza e l’ordinanza che l’ha preceduta.

Come ogni altra sensazione, anche questa parte da fatti.

Il primo è di natura quantitativa: le due motivazioni (quella della settima sezione e questa della prima) con le quali la nostra corte di legittimità ha detto a I.P.A. che i suoi ricorsi erano inammissibili, se sfrondate dalle premesse teoriche, raggiungono a fatica una pagina, anche messe insieme.

La quantità non è tutto, chiaro, ma qui scende al di sotto del livello di guardia e qualcosa vorrà pur dire.

Il secondo fatto – e si chiede subito scusa per il bisticcio linguistico – è l’assenza di fatti, intesi come dati oggettivi in quanto riferiti ad elementi identificabili nella loro specifica essenza.

Non se ne trova neanche uno nell’ordinanza della settima sezione penale la quale si limita ad attestare fideisticamente la presenza di una “motivazione congrua e priva di errori logici” nella decisione impugnata dal ricorrente e la “superfluità della prova esclusa in primo grado“.

Sono entrambi giudizi, certo, ma non sapremo mai su cosa siano stati fondati.

Non se ne trovano neanche nella sentenza della seconda sezione che si limita a recepire ciò che è già stato detto senza aggiungere nulla di suo.

Il terzo e ultimo fatto è lo scollamento tra l’apparente rigore razionale della procedura che innesca la sequenza dell’inammissibilità e la sua sostanziale distopia.

Osserviamola più da vicino.

Si comincia con l’esame dei magistrati degli uffici spoglio .

Qualcuno di essi rileva una causa di inammissibilità e la comunica al difensore il quale a sua volta può presentare una memoria a “difesa” dell’ammissibilità del suo ricorso.

La procedura viene quindi trasmessa alla settima sezione.

L’estensore conia a questo proposito un’espressione che la dice lunga sul senso reale di ciò che sta avvenendo: “contraddittorio cartolare a battute asincrone“.

Se le parole hanno ancora un valore, ci sentiamo liberi di intendere questa definizione come evocativa di un non-dialogo: i magistrati dello spoglio dicono qualcosa, i difensori dicono qualcos’altro e nessuna delle due parti ascolta quello che ha detto l’altra perché i loro argomenti sono destinati a un terzo soggetto, la settima sezione, che dovrebbe fare tesoro delle loro voci e restituire gli atti alle sezioni ordinarie se per ipotesi si convincesse che quell’impressione solitaria (perché di questo si tratta) dell’addetto allo spoglio fosse sbagliata.

Ma questo, disgraziatamente, accade così raramente da non avere quasi rilevanza statistica.

Ecco allora che l’impressione solitaria e la sua condivisione da parte della settima sezione danno vita al loro effetto tipico: il ricorso di turno può essere liquidato in poche e insignificanti battute che si possono spingere, come ammette candidamente la sentenza qui commentata, “fino ai confini dell’ermetismo” ed essere compilate “per semplici punti didascalici“.

Si comprende adesso un po’ meglio come mai da molti anni a questa parte sette ricorsi su dieci presentati alla Suprema Corte sono dichiarati inammissibili e la ragione per cui raramente è dato comprendere al ricorrente perché la sua impugnazione è stata considerata carta straccia.

E si comprende pure il perché di quella sensazione di disagio di cui si diceva.