
Tra le tante ingenuità di coloro che, freschi di studi universitari, muovono i primi passi nelle professioni legali c’è la convinzione che le cause si vincono quando si ha ragione.
Ecco allora che l’esperto dominus impartisce loro una delle prime e fondamentali lezioni: avere ragione è un concetto ampiamente sopravvalutato che non conta nulla se poi chi di competenza non te la dà.
Un’altra non meno grave ingenuità è che le norme e la loro descrizione di istituti, fattispecie e regole, bastino a se stesse nel senso di possedere tanta chiarezza quanto serve per non richiedere e neanche legittimare innesti interpretativi esterni o, peggio, aggiunte creative.
Anche in questo caso il dominus è chiamato a correggere tempestivamente l’errore, facendo presente ai debuttanti che così non è e non è mai stato.
Un esempio concreto è offerto da Cass. Pen., Sez. 1^, sentenza n. 17509/2022, udienza del 18 febbraio 2022.
Tale MM è un detenuto tossicodipendente.
Si rivolge al competente tribunale di sorveglianza chiedendo di potere scontare la pena residua come affidato in prova per attività terapeutica finalizzata al superamento della sua tossicodipendenza.
La sua richiesta è fondata sull’art. 94 DPR 309/1990, rubricato “Affidamento in prova in casi particolari”.
Questa norma permette alle persone tossicodipendenti come MM che intendano sottoporsi a un programma di recupero di chiedere di essere affidati al servizio sociale per proseguire o intraprendere un’attività terapeutica sulla base di un programma che l’interessato concorda con un’azienda sanitaria o una struttura privata autorizzata.
La stessa norma chiarisce la documentazione che l’istante deve allegare alla sua domanda, la procedura che deve essere poi seguita e le verifiche e le valutazioni demandate alla magistratura di sorveglianza.
Nel caso che ci interessa il tribunale di sorveglianza respinge la domanda di MM perché lo considera un individuo pericoloso a causa dei suoi precedenti, di un recente tentativo di evasione, di due infrazioni disciplinari e del quantum di pena che gli resta ancora da scontare: questa sua pericolosità, dice il tribunale, lo rende inadatto all’affidamento in prova.
MM ricorre per cassazione e i giudici di legittimità gli danno ragione.
Lo fanno per una ragione essenziale.
L’affidamento in prova in casi particolari serve a soddisfare un duplice scopo: favorire il recupero del condannato e prevenire il pericolo che commetta nuovi reati.
È chiaro allora, dicono i giudici, che la pericolosità conclamata di chi lo chiede non può essere d’ostacolo all’accoglimento della domanda perché, se così fosse, si innescherebbe un corto circuito logico: uno strumento nato per annullare la pericolosità sarebbe negato a chi è pericoloso, cioè a chi ne ha più bisogno.
Ciò che invece spetta alla magistratura di sorveglianza è verificare se il programma proposto dal richiedente sia adeguato alle finalità il cui raggiungimento è la ragion d’essere dello strumento previsto dall’art. 94 citato.
In sostanza, il tribunale di sorveglianza ha fatto ciò che non doveva fare, cioè considerare la pericolosità dell’istante come un ostacolo preclusivo al beneficio, e non ha fatto ciò che doveva fare, cioè esaminare scrupolosamente il programma proposto e provare a comprendere se era adeguato oppure no a favorire il percorso terapeutico e risocializzante necessario a MM.
È ovviamente seguito l’annullamento con rinvio della decisione impugnata.
Si potrebbe obiettare a questo punto che il caso proposto smentisca l’assunto di partenza secondo il quale avere ragione e sentirsela dare sono due cose diverse. In fondo – si potrebbe dire – la ragione negata prima è stata riconosciuta dopo.
Un’obiezione suggestiva ma infondata posto che MM, che in ipotesi potrebbe essere affidato ai servizi da parecchio tempo, è costretto ad aspettare la nuova decisione del tribunale di sorveglianza e non è neanche detto che la seconda volta sarà quella buona. Nel frattempo trascorre piacevolmente le sue giornate in galera.
Ma c’è di più.
Non era affatto detto che andasse bene in seconda istanza.
Infatti, come spesso accade nella giurisprudenza di legittimità, all’indirizzo illuminato fin qui commentato, se ne oppone uno ben diverso della stessa prima sezione penale il quale, ad usare le parole della sentenza oggetto di questo post, “con accenti di contraddittorietà, pur riconoscendo, da un lato, il “ruolo di centralità” assegnato al programma di recupero nell’applicazione della misura alternativa, sostiene, dall’altro, che detta misura non possa essere concessa al tossicodipendente ritenuto pericoloso, nell’attualità, condizione che sarebbe, di per sé, ostativa alla necessaria collaborazione dell’interessato alla riuscita del programma terapeutico (Sez. 1^, sentenza n. 48041 del 9/10/2018,Rv. 274665)”.
E allora le considerazioni di partenza tornano in tutta la loro validità e danno vita ad una terza e aurea regola: l’unica cosa che conta è il fattore F (da fortuna) o, se si preferisce, il fattore C.

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