
Premessa
È notizia di ieri che la Procura generale di Milano ha impugnata l’ordinanza della corte d’appello di Milano che aveva riconosciuto un indennizzo per ingiusta detenzione a Stefano Binda, assolto dall’accusa di aver ucciso Lidia Macchi.
La Corte aveva riconosciuto un risarcimento di oltre trecentomila euro: Binda era stato in carcere dal 15 gennaio 2016 e il 24 luglio 2019.
L’uomo è stato l’unico indagato per l’omicidio della giovane Lidia che nel 1987 venne trovata cadavere a Cittiglio, comune in provincia di Varese.
Secondo la Procura generale la questione giurisprudenziale di rilievo, sarebbe il silenzio serbato durante gli interrogatori e “la condotta mendace” che costituiscono “condotta fortemente equivoca” tale, evidentemente, da creare concorso nell’errore. Il ricorso richiamerebbe, secondo le notizie di stampa, un verdetto di quest’anno della IV Sezione della Cassazione.
Noi di Terzultima Fermata abbiamo consultato le sentenze in materia emesse nell’anno 2022 dalla Cassazione sezione 4 ed abbiamo individuato il precedente richiamato dalla Procura generale di Milano, si tratta della sentenza numero 37232 depositata il 3 ottobre 2022.
Il fatto
La Corte di appello di Caltanissetta ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione presentata nell’interesse di A. F. in relazione alla custodia cautelare in carcere subìta dal 21 al 23 dicembre 2013 e agli arresti domiciliari subìti sino al 30 marzo 2014 nell’ambito di un procedimento in cui era indagato per due furti in abitazione, conclusosi in primo grado con sentenza di condanna e in grado appello con sentenza assolutoria «per non aver commesso il fatto», divenuta irrevocabile il 3 maggio 2019.
L’interessato propone ricorso per cassazione censurando l’ordinanza impugnata, con unico motivo, per erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen.
Il ricorrente sostiene che l’ordinanza sia affetta da tale vizio nella parte in cui ha ritenuto ostativa al riconoscimento del diritto invocato la condotta menzognera tenuta dall’indagato nel corso delle indagini.
Trattandosi di espressione del diritto di difesa, il mero silenzio, la reticenza e persino la menzogna non possono costituire condotta ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione.
La decisione della Corte di cassazione
La motivazione espressa dalla Corte territoriale indica quale condotta ostativa la versione mendace dei fatti offerta dall’indagato al momento di applicazione della misura, e anche successivamente, al pubblico ministero.
In particolare, i giudici della riparazione hanno evidenziato che F. A., indagato di due furti aggravati in abitazione in concorso con il fratello G. e G.V., aveva fornito una giustificazione della sua presenza nei luoghi in concomitanza con le azioni delittuose affermando che il fratello, che aveva ottenuto in prestito l’auto del V., aveva chiesto agli altri due di accompagnarlo a recuperare l’autovettura, che non riusciva a mettere in moto.
Tale versione, si legge nell’ordinanza, ha trovato patente smentita tanto nella ricostruzione della vicenda effettuata dagli operanti di polizia giudiziaria, appostati nei pressi dell’autovettura.
Con particolare riguardo al comportamento successivo alla perdita della libertà personale indicato nel provvedimento impugnato, le censure mosse dal ricorrente risultano infondate, in quanto la Corte territoriale si è attenuta ai principi di cui sopra, avendo posto a base della pronuncia di rigetto della riparazione la condotta mendace del ricorrente.
Giova sottolineare, in proposito, che la Corte di legittimità aveva, sin dal 2001, affermato il seguente principio di diritto: «In caso di richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice deve tenere conto anche della condotta del ricorrente successiva all’esecuzione del provvedimento restrittivo e, pur nel rispetto del diritto di costui a non rendere dichiarazioni, può legittimamente ritenere che la circostanza di non avere il ricorrente risposto in sede di interrogatorio e non fornito spiegazioni su circostanze obiettivamente indizianti abbia contribuito alla formazione del quadro indiziario che ha indotto i giudici della libertà all’applicazione e alla protrazione della custodia» (Sez. 4, n.2154 del 9/05/2001, Rv. 219490).
Tale posizione aveva trovato conferma in altre pronunce della Corte, secondo cui il silenzio dell’imputato su circostanze non altrimenti acquisibili o, a maggior ragione, il suo mendacio integravano gli estremi di quella colpa che, ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., esclude il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione (Sez. 4, n.956 del 24/03/1998, Rv.210632), sul presupposto che il comportamento mendace dell’imputato, sebbene rientri nel diritto di difesa, come oggetto di scelta. di linea difensiva, non può però giustificare la domanda di riparazione, se proprio dal comportamento mendace sia derivata la conferma o la protrazione della custodia cautelare.
Principi contrari erano stati affermati nella giurisprudenza della Corte, laddove si è affermato che un comportamento che si configuri come espressione del diritto di difesa e di libertà non può al contempo essere qualificato illegittimo nella particolare prospettiva della riparazione per ingiusta detenzione (Sez.4, n.1745 del 03/06/1998, Rv. 211648; Sez. 4, n.2758 del 05/05/2000, Rv. 217429), ma è bene evidenziare che tali principi sono stati affermati con riguardo al comportamento dell’indagato datosi alla fuga o resosi irreperibile.
Con specifico riguardo alla condotta di mendacio, tenendo presente il principio enunciato dalla Corte a Sezioni Unite, in base al quale la valutazione dei comportamenti successivi alla conoscenza da parte dell’indagato del procedimento a suo carico deve essere effettuata con particolare cautela, dovendosi sempre, e con adeguato rigore, avere rispetto per le strategie difensive che abbia ritenuto di adottare (quale che possa esserne la ragione) chi è stato ingiustamente privato della libertà personale (Sez. U n. 43 del 13/12/1995, dep. 09/02/1996, Rv.203638), le successive pronunce avevano, però, chiarito che il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, potessero rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave nel caso in cui egli fosse in grado di indicare specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare (Sez. 4, n.4159 del 09/12/2008, dep. 2009, Rv.242760).
Anche in un’ottica di cauto apprezzamento del comportamento endo-processuale dell’indagato, si era comunque ritenuto che il comportamento silenzioso o mendace fosse rilevante quale condotta ostativa alla riparazione dell’ingiusta detenzione, poiché il diritto all’equa riparazione presuppone una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note, che contrastino l’accusa, o vincano ragioni di cautela (Sez. 4, n. 7296 del 17/11/2011, dep. 23/02/2012, Rv. 251928; Sez. 3, n. 44090 del 9/11/2011, Rv.251325; Sez. 4, n. 40291 del 10/06/2008, Rv. 242755; Sez. 4, n.15140 del 24/01/2008, Rv. 239808), non mancando pronunce di segno contrario, con riferimento, tuttavia, al solo comportamento silenzioso o reticente (Sez. 4, n. 26686 del 13/05/2008, Rv.240940; Sez. 4, n.43309 del 23/10/2008, Rv.241993).
Con specifico riferimento alla strategia difensiva adottata dall’interessato nel corso del procedimento, non vi è dubbio, ‘dunque, che anche la condotta difensiva possa essere oggetto di valutazione per la individuazione della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo e che, in particolare, il mendacio possa di per sé rappresentare, in un determinato contesto indiziario, condotta tendente ad ingannare l’autorità giudiziaria procedente piuttosto che espressione di una particolare linea difensiva.
Il criterio interpretativo da ultimo citato non può ritenersi mutato, secondo quanto già chiarito in precedenti sentenze di questa Sezione (Sez. 4, n. 20141 del 30/03/2022, in motivazione; Sez. 4, n. 3755 del 20/01/2022, Rv. 282581 – 01), a seguito della modifica dell’art. 314 cod. proc. pen. adopera dell’art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, posto che la falsa prospettazione di situazioni, fatti o comportamenti è condotta non assimilabile al silenzio serbato nell’esercizio della facoltà difensiva prevista dall’art. 64, comma 3, lett. b) cod. proc. pen., riconducibile alla presunzione di innocenza, recentemente sancita e rafforzata dalla Direttiva UE n. 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio.
La pronuncia citata nel ricorso, a sostegno dell’opposta tesi che vorrebbe equiparare il mendacio al silenzio (Sez. 4 n. 34367 del 2/07/2021, in motivazione), è al contrario confermativa dell’orientamento qui sposato, ove la si legga nella sua interezza (cfr. par.2.6.2.3).
L’ordinanza impugnata ha, dunque, fatto buon governo dei principi interpretativi sopra esposti, identificando nel mendacio la condotta scorretta tenuta dall’indagato nei confronti dell’autorità giudiziaria, ritenuta logicamente causa determinante del mantenimento della misura custodiale in presenza di atti d’indagine di grave segno contrario a quanto dichiarato.
Questa è la sentenza portata come precedente nel ricorso della Procura generale.
Sgombriamo il campo dall’asserita rilevanza della circostanza che Stefano Binda si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere nel corso dell’interrogatorio di garanzia.
Tale circostanza non è rilevante e sul punto, tra le tante ricordiamo la pronuncia della Suprema Corte sezione 4, n. 40349 depositata il 26 ottobre 2022 che ha così stabilito:
Nel ritenere sussistente la colpa grave dell’interessato ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., la Corte di appello di Roma ha attribuito decisivo rilievo al fatto che, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, S. si avvalse della facoltà di non rispondere.
L’ordinanza impugnata richiama in proposito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale potrebbe considerarsi gravemente imprudente o negligente il comportamento di chi scelga di esercitare il diritto al silenzio riconosciutogli dalla legge ostacolando l’accertamento dei fatti e contribuendo in tal modo a ingenerare la falsa apparenza di un reato.
Tale orientamento, tuttavia, deve ritenersi oggi superato dall’intervento del legislatore che, col d.lgs. 8 novembre 2021 n. 188, ha modificato il primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. L’opzione legislativa è chiara nel senso di adeguare la normativa nazionale alla Direttiva (UE) 2016/343 con specifico riferimento all’emanazione di norme comuni sulla protezione dei diritti procedurali di indagati e imputati (considerando n. 10 e considerando n. 24 della Direttiva).
Si è stabilito, infatti, che «l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lettera b), cod. proc. pen. non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo» e non può assumere quindi esclusivo rilievo al fine di ritenere sussistente una colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo (Sez. 4, n. 8615 del 08/02/2022, Rv. 283017; Sez. 4, n. 19621 del 12/04/2022, Rv. 283241).
Quindi il solo dato rilevante rimerebbe il mendacio e la falsa prospettazione di situazioni, fatti o comportamenti che abbiano inciso sull’emissione e il mantenimento della misura cautelare.
Qualche riflessione
Rimane da chiedersi quali sarebbero i comportamenti tenuti da Stefano Binda che hanno avuto un ruolo causale nel determinare il sorgere o il permanere del quadro indiziario a suo carico con l’emissione e il mantenimento della misura cautelare.
Alla cassazione la risposta.
Noi ci limitiamo a ricordare altra recentissima Cassazione sezione 4 che con la sentenza numero 40348 del 26 ottobre 2022 ha stabilito:
Si deve premettere che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare.
Ai fini della sussistenza del diritto all’indennizzo, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Rv. 257606).
Si tratta di una valutazione che va effettuata ex ante, ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, Rv. 247663).
La giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il mendacio dell’indagato può rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave solo se ha avuto un ruolo causale nel determinare il sorgere o il permanere del quadro indiziario. (Sez. 4, n. 47047 del 18/11/2008, 242759; Sez. 3, n. 29967 del 02/04/2014, Rv. 259941; Sez. 4, n. 46423 del 23/10/2015, Rv. 265287; Sez. 4, Sentenza n. 25252 del 20/05/2016 Rv. 267393).


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