La giustizia penale così com’è non funziona.
È una verità così palese e analizzata da rendere inutile giustificarla.
Tra le cause del suo malfunzionamento viene spesso indicata la presenza di due gradi di merito.
Chi ha un’opinione critica di questa configurazione sostiene che l’appello è un lusso che non potremmo e non dovremmo permetterci.
Questa posizione (che, per la verità, sintetizzo in modo brutale) è normalmente giustificata così: l’accusato che desidera un’istruttoria completa ha il diritto di scegliere il rito ordinario e beneficia di un contraddittorio pieno, perfettamente conforme al modello delineato dall’art. 111 Cost.; l’accusato che ritiene sufficienti (o facilmente integrabili) gli elementi conoscitivi acquisiti nelle indagini preliminari ha a sua disposizione i vari riti semplificati previsti dal codice di rito; in entrambi i casi l’appello è privo di fondamento razionale e serve solo a fare della nostra giustizia penale la grande malata d’Europa.
C’è chi, spingendosi ai limiti estremi dell’ostilità verso il doppio grado di merito e mal digerendo l’inerzia del legislatore, propone un pacchetto di misure che, se attuate, risolverebbero il problema in modo rapido e drastico.
Tra gli alfieri di questa ideologia massimalista spicca il Dr. Piercamillo Davigo.
Il 9 gennaio 2020 l’ex magistrato rilasciò un’intervista a Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, dal sofisticato titolo “Davigo: “Chi vuole processi brevi mantenga la blocca-prescrizione e faccia così” (consultabile a questo link) proponendo le seguenti misure: abolizione del divieto di reformatio in peius in appello; responsabilità in solido del difensore per il pagamento dell’ammenda irrogata per i ricorsi dichiarati inammissibili; attribuzione al giudice dell’impugnazione del potere di valutare se un gravame è pretestuoso e, in caso positivo, del potere conseguenziale di aumentare la pena a chi ha osato troppo.
Giustamente, prevalse l’idea che le proposte di Davigo fossero inservibili e le si destinarono meritatamente all’oblio.
Rimane tuttavia da capire se l’appello abbia ancora senso oppure no, se sia solo un costo ingiustificato oppure uno strumento di cui la nostra giustizia non può fare a meno per correggere errori nel merito che altrimenti, non potendo essere emendati nel giudizio di legittimità, rimarrebbero una colpa di sistema dello Stato-giustizia.
Questa ricerca di comprensione va fatta non su sensazioni e atteggiamenti ideologici (vizio assai diffuso e quanto mai dannoso) ma sui numeri e questi sono stati resi disponibili da una recente, pregevole e documentatissima ricerca di Jacopo Della Torre, intitolata “La crisi dell’appello penale nel prisma della statistica giudiziaria”, pubblicata il 4 luglio 2022 su Archivio Penale e consultabile a questo link.
Tra i vari indici statistici presi in considerazione dall’Autore c’è il tasso di riforma (o reversal rate) in secondo grado delle sentenze di primo grado appellate.
Nella tabella n. 8 riportata alle pagg. 24-25 del suo studio, Della Torre, rielaborando dati di fonte ministeriale, ha esaminato l’intero universo delle sentenze emesse dalle Corti d’appello italiane negli anni 2015, 2017 e 2019, distinguendole ulteriormente per ciascun distretto giudiziario e per la tipologia della pronuncia (conferma, riforma, altro).
La lettura della tabella documenta una realtà inoppugnabile che lascio alle parole dell’Autore: “Va, invero, preso atto di come il tasso di riforma e di conferma in appello vari, in modo molto significativo, a livello locale. A fronte di distretti, in cui la quota delle sentenze di conferma è costantemente più alta delle riforme, ve ne sono altri, dislocati trasversalmente su tutto il territorio nazionale, dove le seconde surclassano le prime. È facile intuire che la presenza di un reversal rate così elevato, in tante porzioni del territorio nazionale, rappresenti un sintomo di una scarsa capacità dei provvedimenti di molti tribunali di resistere alle critiche delle parti […] Ma quel che preme, soprattutto, osservare è che la presenza di una quota così ampia di decisioni di riforma fornisce una dimostrazione di come davvero l’appello sia un presidio essenziale, «deputato a garantire l’equa e corretta applicazione della legge nel caso concreto». Senza tale impugnazione si rischierebbe, infatti, non solo di rendere la Cassazione assediata da un numero di ricorsi ancor più incompatibile con le funzioni nomofilattiche a lei assegnate, ma anche di lasciare privi di alcun rimedio (ordinario) una larga serie di errori (di merito) dei giudici di primo grado; con tutto ciò che ne consegue in termini di abbassamento radicale della qualità del sistema processuale penale italiano. Di talché, può ben dirsi che proprio l’alto tasso di riforme, che caratterizza l’appello, rappresenta uno dei più solidi argomenti pragmatici per rigettare alla radice le tralatizie posizioni abolizioniste nei confronti di tale istituto, ribadite, anche di recente, da una parte della magistratura”. Parole di chiarezza cristallina che bastano a se stesse e che rappresentano un monito da non dimenticare mai: l’appello non deve essere toccato o ridimensionato e non per una petizione ideologica ma per rimediare a una quantità di decisioni scorrette di primo grado che, a quanto pare, è diventata imbarazzante.
