L’OCSE e i suoi pregiudizi sulle politiche italiane anti-corruzione

Oggi vorrei parlare dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE o OECD).

Come si ricava dalla pagina dedicata del sito web istituzionale del Ministero dell’Economia e delle Finanze (a questo link), “L’Ocse è un organizzazione internazionale di studi economici per i paesi membri, paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato. L’organizzazione svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultiva che consente un’occasione di confronto delle esperienze politiche, per la risoluzione dei problemi comuni, l’identificazione di pratiche commerciali ed il coordinamento delle politiche locali ed internazionali dei paesi membri. L’Ocse, che ha sede a Parigi, conta attualmente 36 paesi membri (Australia, Austria, Belgio, Canada, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. L’Organizzazione inoltre intrattiene rapporti con numerosi paesi non membri, organizzazioni internazionali ed altri soggetti istituzionali internazionali”.

Chi non si accontenta può proseguire il viaggio ed entrare nel sito web dell’OCSE a questo link.

Entrati, si clicca sulla sezione Countries e poi, in sequenza, su Italy, Italy country reviews, Italy – OECD Anti-bribery Convention e, infine su Italy’s Phase 4 Monitoring Report (a questo link).

È un rapporto rilasciato pochi giorni fa che si occupa dell’attuazione della Convenzione anti-corruzione dell’OCSE ed è ovviamente focalizzato sul nostro Paese.

Chi desidera approfondire farà bene a leggere tutto il rapporto.

Dal canto mio, ritengo utile un focus su una sua parte specifica contenuta nel sotto-paragrafo B.1.a intitolato “Standard of proof in foreign bribery case” (“Standard probatorio nei casi di corruzione all’estero“).

Gli esperti OCSE hanno in sostanza analizzato gli indirizzi interpretativi e i canoni valutativi impiegati dai giudici italiani nei procedimenti in cui sono contestate ipotesi di corruzione internazionale.

Lo hanno fatto in modo empirico, cioè soprattutto fondandosi sull’esito dei non molti giudizi appartenenti a questa tipologia.

Hanno appurato anzitutto che tra gli ultimi sette casi ben cinque si sono conclusi con l’assoluzione di tutti gli imputati, uno con un’assoluzione parziale ed un altro con condanna non definitiva.

La spiegazione che danno di questi magri risultati è l’eccessivamente elevato standard probatorio richiesto dai giudici nostrani per ritenere confermata l’ipotesi accusatoria e la loro propensione a parcellizzare gli indizi cui segue il rischio di perdere di vista o sottovalutare il quadro generale.

Appare singolare che gli esperti OCSE, anziché limitarsi a considerazioni generali, entrino nel vivo del thema probandum dei processi fino al punto di offrire una loro personale interpretazione degli elementi conoscitivi, sia in ordine alla loro importanza nell’economia processuale che al significato che è più corretto attribuirgli.

Così, ad esempio, nel caso che chiamano Oil and Gas (Algeria), manifestano stupore per la scelta del giudicante di considerare una somma importante pagata da una compagnia alla stregua di una consulenza anziché di una tangente finalizzata all’aggiudicazione di un appalto. Si spingono a considerazioni di merito affermando che l’importo è troppo alto per potere essere il corrispettivo di una consulenza e aggiungendo che comunque non c’è prova che il presunto consulente abbia svolto una qualche attività tangibile.

Lo stesso hanno fatto per il processo che in Italia è stato mediaticamente identificato come caso Eni – Nigeria o Eni – Shell. In questo caso i valutatori si addentrano ancora di più nel merito, scegliendo essi stessi gli elementi che avvalorerebbero l’accusa e tacendo su tutti gli altri che hanno portato all’assoluzione ormai definitiva di tutti gli imputati.

Alla ricerca di spiegazioni di ciò che gli è apparso inspiegabile, hanno intervistato vari giudici italiani e ne hanno avuto la risposta più prevedibile: quale che sia l’imputazione, tutti gli imputati hanno diritto ad essere giudicati secondo il medesimo standard probatorio e, d’altro canto, la valutazione della prova indiziaria trova un suo percorso obbligato di applicazione generale nell’art. 192, comma 2, c.p.p.

Diversa è stata invece la risposta dei pubblici ministeri i quali hanno lamentato l’eccessiva onerosità dello standard probatorio, per di più con un’asticella che si alza sempre di più. Qualcuno di essi ha anche aggiunto che l’approccio a quel tipo di processi è sbiadito negli ultimi tempi e che in questa stagione i giudici tendono a non vedere la serie ma solo i frammenti.

Gli autori del report non fanno mistero sulla risposta che ritengono più plausibile e, addirittura, additano allo scandalo le dichiarazioni del sostituto procuratore generale milanese che ha rinunciato all’appello dei suoi colleghi di primo grado proprio nel processo Eni – Nigeria.

Nel report, infatti, quelle dichiarazioni vengono testualmente qualificate come “commenti sconsiderati” (“ill-advised comments”).

Il sotto-paragrafo sul quale mi sono focalizzato si addentra ulteriormente nel campione di procedimenti utilizzato come banco di verifica ma le coordinate degli esperti non cambiano e i loro metodi di indagine rimangono gli stessi così come i risultati.

Non mi serve allora proseguire e comunque il report è lì a disposizione di chi voglia averne una conoscenza completa.

Posso pertanto concludere.

È indiscutibile che l’appartenenza dell’Italia all’OCSE, di cui peraltro è partner principale e finanziatrice, comporta l’obbligo di condividerne il fine e di assoggettarsi alle sue procedure.

Mi chiedo tuttavia se sia legittima un’indagine condotta nel modo che ho descritto, se l’OCSE possa spingersi al punto di contestare senza alcuna prudenza le scelte giurisdizionali di uno Stato sovrano, se possa farlo assumendo come principale punto di riferimento l’opinione di una parte processuale, come certo è il pubblico ministero, se possa operare una selezione arbitraria degli elementi conoscitivi acquisiti nei giudizi assunti a campione, se possa perfino adombrare, mettendo in primo piano la voce dei PM, una sorta di timidezza e di insipienza dei magistrati giudicanti allorché debbano confrontarsi con le contestazioni di corruzione internazionale.

A me pare di no, che nulla di tutto questo sia legittimo.

E mi pare anche che la posizione assunta dall’OCSE risenta di un’ideologia che è anche un pregiudizio: che qui da noi si tenda a non fare sul serio e, soprattutto, che fare sul serio significhi sempre e solo condannare.

Mi pare davvero sbagliato.

4 commenti

  1. Approfonidrò, ma leggendoti (e conoscendoti) tendo a essere pienamente d’accordo. Mi avventuro solo in una considerazione: ma in Italia facciamo sul serio? Ecco, in Italia, grazie alla loquacità di molti pm, soprattutto quando avviano indagini su ipotesi di corruzione e mafia, sembra che facciamo sul serio solo se parte un’indagine e, non o, l’informazione la racconta, adornandola con incursioni nel privato, meglio se personalissimo. Tutto quanto sfugga a quell’occhiuto interesse è irrilevante: non esistono in assoluto, né tantomeno in via gradata, la responsabilità sociale e quella politica. Le squadre dei buoni o dei cattivi le formano i pm.

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    1. Caro Vittore, è tutto vero quello che dici: che qui da noi si faccia sul serio è petizione di principio più che verità scontata. Da tempo le dimensioni ormai ingovernabili dei flussi di procedimenti penali hanno consegnato agli uffici del pubblico ministero una discrezionalità assai ampia nella scelta di ciò che mandare avanti e ciò che destinare alla polvere. Quello che resta è una giustizia che può diventare di scopo nel senso che si fa solo quello che conviene per una qualsiasi ragione. I procedimenti nei confronti di personaggi noti o meglio ancora illustri sono il top per chiunque desideri una ribalta e quindi convengono per definizione. Quindi hai ragione. Ma questo non significa che ce l’abbia anche l’OCSE le cui premesse ideologiche sono così scoperte da diventare grottesche. Vogliono insegnarci a vivere ma sappiamo sbagliare da soli, ne convieni?

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      1. Sostituendosi alla coscienza e agli elettori e, per chi ci crede, al giudizio divino la giustizia penale induce notevoli distorsioni agli assetti democratici.

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      2. Siamo osservatori. Viaggiatori lungo le strade del diritto. Possiamo solo raccontare quel che vediamo. È la nostra forza ma anche la nostra debolezza.

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