Giudici di pace: cosa serve dimostrare, secondo la Corte costituzionale, per ritenerli “lavoratori” (di Vincenzo Giglio)

Questione

Il Giudice di pace di Catanzaro, con un’ordinanza del 6 aprile 2021, ha sollevato questioni di illegittimità, per contrasto con gli artt. 36 e 97 Cost., dell’art. 11, comma 4-ter, L. 374/1991 (Istituzione del giudice di pace), «nella parte in cui stabilisce che la somma di € 72.000 lordi annui non può essere superata».

Il giudice così giustificato la rimessione:

  • pende dinanzi a lui un giudizio introdotto da un magistrato onorario che esercita le funzioni di giudice di pace nella sede di Reggio Calabria, il quale avrebbe maturato, per l’attività svolta nel dicembre del 2016, un’indennità mensile pari ad euro 6.347,22, importo però decurtato di euro 2.294,07, in considerazione del superamento del limite annuo massimo di euro 72.000,00 (lordi) previsto dalla disposizione censurata;
  • l’interessato ha, quindi, citato in giudizio il Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro tempore, chiedendone la condanna al pagamento delle indennità spettanti per venti sentenze «depositate nell’ultima decade del mese di dicembre 2016» e non compensate, oltre interessi e rivalutazione;
  • in punto di rilevanza, la disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale risulta abrogata dall’art. 33, comma 2, d.lgs. n. 116/2017 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace), solo a decorrere dal 15 agosto 2021, sicché essa, «in ossequio al principio tempus regit actum», dovrebbe ancora trovare applicazione al «fatto dedotto in citazione», che «attiene alla mensilità di Dicembre 2016» e, in particolare, alla mancata corresponsione dell’indennità spettante per «l’attività svolta extrasoglia», consistente in venti sentenze depositate nel mese di dicembre 2016;
  • im punto di non manifesta infondatezza, ritiene di non poter accedere ad una interpretazione «costituzionalmente orientata, segnatamente nel senso di consentire il pagamento dell’indennità annua eccedente il limite di € 72.000,00 nel successivo anno solare», in ragione del tenore letterale della disposizione, «che vuole chiaramente porre un tetto ai compensi annui elargiti ai giudici di pace»;
  • osserva infatti che l’art. 11, comma 4-ter, della legge n. 374 del 1991 «è stato costantemente interpretato nel senso che lo stesso pone un tetto massimo alle indennità annue percepibili da un giudice di pace», senza però indicare «una soluzione per l’attività svolta da un giudice di pace oltre la suddetta soglia», destinata, dunque, a rimanere «priva di indennità (rectius priva di retribuzione)»;
  • tale conseguenza contrasterebbe con l’art. 36 Cost., in considerazione della natura sostanzialmente retributiva dell’indennità, destinata a compensare «l’attività del giudice di pace (lavoratore) extra-soglia»; sarebbe così violato il diritto a percepire una retribuzione «proporzionale alla quantità del lavoro svolto», dal momento che «emettere sentenze in nome del popolo italiano» costituirebbe «un lavoro in senso tecnico»;
  • sarebbe violato, altresì, l’art 97 Cost., «poiché una interpretazione che proponga di procrastinare il deposito delle sentenze extra-soglia al successivo mese di gennaio» si porrebbe in contrasto con il principio del buon andamento dell’amministrazione della giustizia; sarebbe infatti incoerente «censurare l’eccessiva durata del processo civile e […] richiedere al giudice condotte dilatorie, sol perché si è raggiunto il limite massimo di spesa per l’anno in corso».

Decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale (presidente Sciarra, redattore Zanon) ha provveduto con l’ordinanza n. 215/2022, depositata il 20 ottobre 2022 e allegata in calce al post.

Ha osservato quanto segue:

  • la disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale risulta abrogata dall’art. 33, comma 2, del d.lgs. n. 116 del 2017 a decorrere dal 1° gennaio 2022 e trova quindi ancora applicazione nel giudizio de quo;
  • le questioni sollevate sono tutte manifestamente inammissibili;
  • la censura fondata sull’art. 36 Cost. si fonda sulla ritenuta natura retributiva del compenso spettante al giudice onorario di pace, dal rimettente qualificato come «lavoratore» unicamente in forza dell’attività di «emettere sentenze in nome del popolo italiano», che costituirebbe «un lavoro in senso tecnico»; tuttavia, il giudice a quo non fornisce alcuna reale motivazione sulle ragioni per le quali il compenso spettante ai giudici onorari di pace deve essere considerato come avente carattere retributivo e si astiene da qualsiasi confronto con le norme applicabili ratione temporis e, in particolare, con quelle dettate dalle altre disposizioni del medesimo art. 11 della legge n. 374 del 1991, secondo cui «[l]’ufficio del giudice di pace è onorario» (comma 1) e i compensi spettanti per l’attività svolta costituiscono non emolumenti di natura retributiva, bensì «indennità» (così, espressamente, i commi 2, 3, 3-bis, 3-ter, 4, 4-bis e 4-ter) corrisposte per l’esercizio di funzioni, appunto, onorarie (sul carattere onorario delle funzioni, ancora da ultimo, sentenze n. 41 del 2021 e n. 267 del 2020); né prende in considerazione l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (con particolare riferimento alla sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX, alla quale questa Corte ha fatto cenno nella citata sentenza n. 267 del 2020), secondo cui, per il diritto europeo, «un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore” […], circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»;
  • il giudice a quo non ha dunque in alcun modo adempiuto all’onere di verificare la sussistenza di quelle necessarie condizioni alle quali la stessa giurisprudenza europea vincola il riconoscimento, caso per caso, di un rapporto di lavoro subordinato alla luce del diritto europeo (nell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia), del resto dal rimettente neppure invocato per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.;
  • di conseguenza, così come impostata dal rimettente, la questione è manifestamente inammissibile e continua a essere fondata la presunzione di non conferenza dell’evocazione del principio enunciato nell’art. 36 Cost., come da risalente giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 70 del 1971;
  • la stessa sorte deve essere riservata alla censura fondata sul prospettato contrasto con l’art. 97, secondo comma, Cost., dal momento che, nella giurisprudenza costituzionale, è costante l’affermazione che il principio di buon andamento, «pur essendo riferibile agli organi dell’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre tale principio è estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale» (sentenza n. 14 del 2019; nello stesso senso sentenze n. 80 del 2020, n. 90 del 2019, n. 91 del 2018 e n. 44 del 2016), funzione che viene in rilievo nella questione sollevata dal giudice a quo.

La manifesta inammissibilità di entrambe le questioni è dunque dichiarata con ordinanza.

Considerazioni conclusive

La motivazione condivisibile dell’ordinanza della Consulta fa comprendere non solo che i parametri costituzionali individuati dal giudice a quo sono inappropriati ma che ve è uno diverso che potrebbe in ipotesi essere giusto.

Esso deriva dall’indirizzo giurisprudenziale eurounitario propenso ad attribuire la natura di lavoratore al magistrato onorario purché sia verificato in concreto che le sue prestazioni funzionali sono reali ed effettive e non hanno carattere marginale ed accessorio.

Beninteso, eventuali future questioni analoghe dovranno individuare come parametro di riferimento l’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui assoggetta la potestà legislativa statale ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (nel significato loro attribuito dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ne è l’interprete qualificata).

Al tempo stesso, le medesime questioni dovranno essere fondate su una ricognizione approfondita e condivisibile del mansionario proprio della funzione giudiziaria onoraria alla ricerca degli elementi che ne permettano l’assimilazione ad un rapporto di lavoro vero e proprio.

La questione quindi è tutt’altro che chiusa.