La crisi morde tutti ed anche la professione di avvocato si “adegua” suo malgrado alle difficoltà dei tempi.
In questi giorni a Roma si possono leggere manifesti, di solito collocati nei mercati rionali o nei mercatini degli ambulanti, dove si pubblicizzano consulenze in loco per contrastare il caro bollette e affitti.
“L’avvocamper”, così si definisce, offre sul posto “gratuitamente” pareri e consigli per “supporto legale sugli affitti e bollette”.
L’avvocato è come un gatto: ha sette vite, il detto calza a pennello per l’avvocamper che ha risolto, a suo modo, come tagliare le spese di studio, segreteria, praticante.
D’altronde sono molti gli avvocati che per necessità hanno dovuto eliminare le spese di studio spostandosi chi a casa dove dedicano una stanza al lavoro chi in studi condivisi a giorni e addirittura ad ore.
La nostra professione, per svolgerla in maniera basica, necessita di un portatile e uno smartphone e lo studio può essere sostituito con situazioni alle volte originali come il caso dell’avvocamper.
Ricordiamo che l’avvocato non ha bisogno di uno studio dedicato alla sua professione.
Vediamo cosa stabilisce la legge professionale e il codice deontologico in proposito.
Il tema è stato affrontato dal Consiglio di Stato con la sentenza del 21 gennaio 2021, per la lettura del provvedimento, consultabile a questo link.
Nell’immaginario collettivo è difficile immaginare un avvocato senza uno studio dedicato alla sua professione, il recente ricorso allo smart working sembra aver influenzato anche il Consiglio di Stato che è stato chiamato a decidere sulla validità di una delibera di un consiglio comunale che ha ricompreso nel Regolamento urbanistico edilizio recante “Disciplina per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche”, fra gli edifici aperti al pubblico anche gli studi professionali di avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e abilitati al gratuito patrocinio.
La questione che qui interessa è la motivazione del Consiglio di Stato che ha stabilito che non esiste alcun obbligo per l’avvocato di esercitare la sua professione presso uno studio legale.
I giudici amministrativi hanno escluso che lo studio legale abbia la qualità di luogo pubblico o aperto al pubblico in quanto “né la legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, in particolare l’art. 7 di essa, relativo al domicilio, né il codice deontologico forense obbligano l’avvocato per esercitare la sua professione, ad avere la disponibilità di un ufficio a ciò dedicato”.
In particolare, l’art. 7 della legge n. 247/2017 prevede solo che l’avvocato abbia un “domicilio”, ovvero in termini semplici un recapito ove essere reperibile e ricevere gli atti, ma non vieta che esso, al limite, coincida con la propria abitazione. Per l’esame della disciplina dell’ordinamento della professione forense si consulti questo Link.
Pertanto, l’apertura di uno studio come comunamente inteso rientra nella libera scelta del professionista. Inoltre, aggiunge il Consiglio di Stato, lo studio legale, anche quando esiste, non è di per sé un luogo pubblico o aperto al pubblico, come si desume, per implicito, dalla costante giurisprudenza penale, secondo la quale commette il reato di violazione di domicilio previsto dall’art. 614 c.p. del codice penale chi acceda allo studio di un avvocato, o vi si trattenga, contro la volontà del titolare.
In conclusione, l’avvocato non è obbligato a disporre di uno studio ed il relativo incarico professionale si può sempre svolgere.
La legge n. 247/2012 e il codice deontologico non vietano infatti in generale che il difensore, per svolgere il proprio mandato, possa recarsi presso la parte, in un luogo che essa ritiene adeguato alle proprie esigenze.
