Il detenuto morto “apparente” (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Da Il Fatto Quotidiano (questo il link) si apprende che il carcere di “Regina Coeli” ospita da diversi mesi un ragazzo pakistano che dorme perennemente in una sorta di morte apparente senza alcun contatto con l’esterno.

Quest’uomo si trova nel centro clinico del carcere romano dal mese di giugno, sta sempre sdraiato sul letto a occhi chiusi e immobile e viene alimentato con cibo liquido in bocca che deglutisce in maniera meccanica.

Questa sorta di catalessi accompagna il detenuto dormiente.

Viene però soprannominato “Il simulatore” perché i vari controlli medici – molti, anche esterni al carcere, presso l’ospedale Sandro Pertini dove il ragazzo è stato più volte ricoverato – non hanno mai riscontrato nulla di oggettivo.

La vita di questo ragazzo è sospesa in una situazione surreale nella quale il suo processo si svolge regolarmente con la sua “presenza” in aula in lettiga senza che riesca ad avere alcun contatto sonoro o almeno visivo con l’avvocato, i giudici e con il mondo che lo circonda.

Nessuno lo ha mai visto aprire gli occhi o quantomeno fare una smorfia o un suono qualsiasi, la sua vita è sospesa in un limbo doloroso che sembra non interessare al mondo che lo circonda che lo ha bollato facilmente come simulatore.

Nessuna diagnosi uguale nessuna possibilità di trovare una sistemazione fuori dal carcere per il dormiente che continua la sua “vita” sul letto del carcere con il compagno di cella che gli cambia in pannolone e controlla il catetere.

Questa storia triste ricorda il bel libro di Aharon Appelfeld “Il ragazzo che voleva dormire”, un romanzo intenso in cui il protagonista che ha perso tutti gli affetti ed anche la dignità si rifugia in un sonno profondo, per non dover subire l’atrocità dei ricordi e del suo triste presente.

La vicenda di questo ragazzo pakistano rende palpabili le parole di Adriano Sofri: “Il carcere non è ancora la morte, benché non sia più la vita”.