La lettera di Cuno Tarfusser e il tempo che scorre inesorabile senza che nulla si modifichi (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Dopo l’esplosione del cosiddetto “caso Palamara” e l’emersione del “sistema” consociativo, corporativo e castale che ha marcato così fortemente e negativamente l’autogoverno della magistratura da molti anni a questa parte, era legittimo attendersi un cambio di passo, addirittura una palingenesi, che restituisse alle rappresentanze dell’ordine giudiziario la verginità perduta.

Si immaginava insomma un prima e un dopo e per meglio distinguerli erano già pronti gli acronimi a.P. e d.P. (avanti Palamara e dopo Palamara).

Si ricordavano lo squallore e le brutture del passato, come quella di cui stiamo per parlare.

Tutti sanno che tra i peggiori vizi del “Sistema” spiccavano le logiche dell’appartenenza.

Logiche che non lasciavano spazio al merito, soprattutto quando c’era da decidere le nomine di vertice negli uffici giudiziari centrali per gli equilibri interni della magistratura e per il suo sistema relazionale esterno, vale a dire i suoi rapporti con gli altri poteri forti della Repubblica.

Tra questi uffici, un posto di primo piano aveva sempre avuto la direzione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Chi la detiene è un potente per definizione.

Nel 2015 andò in pensione Edmondo Bruti Liberati, capo di quella procura, e fu emesso il bando per la nomina del suo successore.

Volle – incautamente, come si capirà tra poco – candidarsi anche Cuno Jakob Tarfusser, già procuratore capo a Bolzano, in quel momento vicepresidente della Corte penale internazionale, oggi sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Milano.

Quello che successe dopo la candidatura lo lasciamo raccontare al diretto interessato, riportando il testo integrale della lettera da lui scritta nel 2016 al CSM.

Signore Consigliere, signori Consiglieri, ho partecipato alla selezione per il posto di Procuratore della Repubblica di Milano, nella convinzione di essere in possesso dei titoli necessari. In particolare, ho ritenuto di poter mettere a disposizione dell’ufficio delle mie specifiche, in alcuni casi uniche, competenze.

Tra queste, (i) l’aver dato un significato concreto al concetto di “capacità organizzativa e manageriale” nella gestione della Procura della Repubblica di Bolzano (2001 – 2009), fino a ottenere per l’ufficio l’inedita certificazione di qualità amministrativa; (ii) l’aver introdotto strumenti di trasparenza gestionale e informativa quali la carta dei servizi e il bilancio di responsabilità sociale; (iii) l’avere ottimizzato le (scarse) risorse disponibili, riducendo ciononostante i costi di gestione dell’ufficio di oltre il 50%.

Grazie a questo impegno che ha coinvolto tutto l’ufficio, termini quali “servizio”, “qualità”, “trasparenza”, “efficienza”, “controllo di gestione” sono entrati a pieno titolo anche tra i concetti essenziali di una buona amministrazione della giustizia, tanto che da tempo – ancora su mio input del giugno 2008 – la Scuola della Magistratura svolge specifici corsi per dirigenti e candidati tali.

Ho anche ritenuto che la conoscenza di quattro lingue e l’esperienza direttiva e semi-direttiva maturata in un complesso ufficio a giurisdizione sovranazionale quale la Corte Penale Internazionale potesse rappresentare un asset piuttosto che un ostacolo all’incarico direttivo milanese.

Evidentemente mi sbagliavo, giacché non pare che la mia candidatura sia stata presa in alcuna seria considerazione.

Non si spiega altrimenti la grottesca parentesi dell’audizione di (quasi) tutti i candidati, alla quale non sono mai stato invitato, nonostante la buona volontà di un vostro solerte funzionario. Mentre ancora stavo attendendo tale convocazione, ho appreso dai giornali, non solo che le audizioni si erano svolte, ma anche dissertazioni di vario genere sui nomi dei candidati più accreditati.

Chi mi conosce, sa bene come io non sia per nulla formalista, ma ho imparato che in talune circostanze – a maggior ragione quando si tratta di scegliere il dirigente di una degli Uffici Giudiziari più importanti d’Italia – la forma è sostanza, ovvero trasparenza, misurabilità dei criteri, nemica di equilibri non dichiarabili.

Prendo quindi atto con amarezza che questo nostro Paese è tuttora ostaggio di logiche e percorsi decisionali inaccettabili ai quali non mi sono mai assoggettato e ai quali non inizierò certo ora, e in questo contesto, ad assoggettarmi.

Signore Consigliere, signori Consiglieri, non ho alcuna intenzione di ricorrere contro questa mia, a me inspiegabile, esclusione, né ho in mente altre strategie, tattiche o tatticismi. Non è nel mio stile impormi con mezzi diversi dalla professionalità e dal merito, men che meno lo è cercare di entrare dalla porta di servizio (giudiziaria) trovando chiusa quella principale.

Con questa mia intendo semplicemente comunicarvi la mia sorpresa e il dispiacere per il frangente in cui mi sono trovato, oltretutto creato da un ambito istituzionale che dovrebbe, al contrario, rappresentare un esempio di trasparenza. Sono sinceramente e profondamente amareggiato dal ripetersi di circostanze (per me purtroppo non inedite) a causa delle quali mi viene negata la possibilità di mettere a disposizione della Giustizia del mio Paese esperienze certamente innovative, positive e complesse.

Nel ringraziare dell’attenzione colgo l’occasione per formulare i migliori auguri di buon lavoro al collega che sarà incaricato della direzione della Procura della Repubblica di Milano.

Cuno J. Tarfusser”.

Riprendiamo il discorso da dove l’avevamo lasciato.

Si pensava che una nuova consapevolezza, magari propiziata dalla colata a picco della credibilità della magistratura, sarebbe germinata a vantaggio di tutti gli italiani.

Ma forse era una speranza mal riposta.

Le risposte istituzionali seguite al “caso Palamara” hanno raccontato una storia in cui l’unico vero cattivo è proprio Palamara, non ce ne sono altri.

Il nuovo CSM è stato eletto e l’impressione è che la presa delle correnti associative della magistratura sia aumentata piuttosto che diminuire.

Il timore è che altri come Tarfusser, forti soltanto delle loro competenze, continueranno ad essere esclusi dalla stanza dei bottoni perché l’unica cosa che conta è appartenere a qualcuno e qualcosa. Speriamo ovviamente di sbagliarci.