
La cassazione sezione 2 con la sentenza numero 38084 depositata il 7 ottobre 2022 ha esaminato la questione relativa al diritto al silenzio dell’imputato e le implicazioni sfavorevoli di tale scelta processuale.
La Suprema Corte, chiamata a decidere in tema di ricettazione, ha stabilito che per quanto riguarda l’intervenuta valorizzazione del silenzio tenuto dagli imputati in ordine alla provenienza – ritenuta non altrimenti giustificabile – della somma di denaro de qua, ferma la materialità del fatto contestato, già accertata aliunde, la Corte di appello si è correttamente conformata, quanto alla prova del necessario dolo ed alla conseguente qualificazione giuridica del fatto accertato, al consolidato orientamento di questa Corte (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 20193 del 19/04/2017, Rv. 270120), che il collegio condivide e ribadisce, per il quale, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede; d’altro canto, ai fini dell’integrazione del delitto di ricettazione è sufficiente il mero dolo eventuale, configurabile nei casi in cui l’agente abbia consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi, in tal modo, ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza ex art. 712 cod. pen. (Sez. 2, n. 25439 del 21/04/2017, Rv. 270179).
Non si richiede, in tal modo, all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non un onere probatorio, bensì un mero onere di allegazione di elementi, dal quale potrebbe conseguire l’individuazione di un tema di prova del quale onerare la parte pubblica oppure in ordine al quale esercitare i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento (in tal senso, Sez. U, n. 35535 del 12/07/2007, in motivazione).
D’altro canto, la stessa Corte EDU, pur riconoscendo l’impossibilità di basare una condanna esclusivamente o principalmente sul fatto che l’imputato sia rimasto silente, rifiutando di rispondere alle domande o comunque rendere dichiarazioni, ammette che talora il silenzio dell’imputato possa essere valorizzato al fine di verificare la persuasività delle prove addotte a suo carico dalla pubblica accusa, come accade in situazioni che richiedono giustificazione da parte dell’imputato: «ovunque si debba tracciare il confine tra questi due estremi, da questa interpretazione del “diritto al silenzio” risulta che la questione se il predetto diritto sia assoluto deve essere risolta negativamente.
Non si può quindi affermare che la decisione di un imputato di rimanere in silenzio durante il procedimento penale non debba necessariamente avere implicazioni quando il tribunale sarà chiamato a valutare le prove contro di lui.
D’altro canto (…) gli standard internazionali stabiliti in questo settore, pur prevedendo il diritto al silenzio e il privilegio contro l’autoincriminazione, tacciono su questo punto.
Se il trarre conclusioni sfavorevoli dal silenzio di un imputato violi l’articolo 6 è, quindi, una questione da determinare alla luce di tutte le circostanze del caso, con particolare riguardo alle situazioni in cui possono essere tratte le inferenze, al peso riconosciuto al silenzio dai giudici nazionali nella valutazione delle prove ed al grado di coercizione inerente alla situazione in concreto verificatasi» (Corte EDU, Grande Camera, 08/02/1996, caso John Murray c. Regno Unito, § 47).
In conclusione, non deve essere dimenticato che la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell’imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova, anche se di carattere residuale e complementare e in presenza di univoci elementi probatori di accusa.

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