
In Italia, tra il 1992 e il 2021, ben 30.133 persone sono state indennizzate dallo Stato (cioè da tutti noi) per essere state vittime di ingiuste detenzioni o errori giudiziari.
L’esborso complessivo è di poco inferiore a 900 milioni di euro.
Sarebbero già numeri da brivido ma, sfortunatamente, rappresentano soltanto la parte emersa e visibile di un fenomeno ben più esteso.
Basti considerare che la platea degli aventi diritto viene falcidiata (solo 24 domande su 100 vengono accolte) da indirizzi interpretativi di rigore draconiano tanto che c’è voluta una legge di interpretazione autentica per stabilire che l’accusato che esercita il suo diritto al silenzio ha comunque diritto alla riparazione, mentre in precedenza il silenzio era trattato alla stregua di una colpa grave.
Così come va ricordato che l’irrisorietà degli indennizzi per ingiuste detenzioni di breve durata o il costo dell’assistenza tecnica di un legale o l’orrore di un nuovo confronto con la macchina giudiziaria dopo esserne stati maciullati disincentivano tante altre vittime che scompaiono così dalle statistiche ufficiali.
Su questa “violenza” istituzionale ha acceso un faro lo scorso anno la Corte dei Conti, concludendo che lo Stato interpreta due ruoli, entrambi negativi, in questa tragicommedia: commette errori e ingiustizie a raffica nella sua veste di dispensatore di giustizia; molto, moltissimo, perdona o dimentica quando dovrebbe presentare il conto (leggasi esercitare l’azione di rivalsa) a chi, investito di funzioni giudiziarie, ha dato causa a quelle ingiustizie.
In parole più semplici, quello che è noto al ministero dell’Economia che allarga i cordoni della borsa quando c’è da pagare gli indennizzi, sembra invece ignoto ai titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che sbagliano (ministro della Giustizia e procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione) e all’autorità competente (presidente del Consiglio dei ministri) a promuovere, in presenza dei requisiti di legge, l’azione di rivalsa verso il magistrato che ha dato causa all’errore giudiziario o all’ingiusta detenzione dai quali è dipeso l’indennizzo.
Tanto ciò è vero che ad oggi risulta esercitata una sola azione di rivalsa che ha consentito allo Stato di recuperare dal malcapitato (vero che ha sbagliato ma la sua solitudine me lo fa considerare simpatico) la somma di € 10.425,68.
La Corte dei Conti ha ovviamente chiesto maggiore attenzione – e ci mancherebbe altro – ma il punto vero di domanda è se di disattenzione si sia finora trattato (e già questo sarebbe strano a fronte di una normativa quantomai chiara in punto di responsabilità e delle sue conseguenze) o, più semplicemente e biecamente, di uno dei tanti scudi corporativi che nel tempo hanno fatto dell’ordine giudiziario un potere quasi intangibile.
Per parte mia, auspicherei l’obbligo di trasmissione alla Corte dei Conti delle sentenze delle Corti di appello che liquidano gli indennizzi, obbligo previsto per i decreti di liquidazione degli indennizzi ex legge Pinto.
Non perché ce l’ho con i 30.132 produttori di ingiustizia che non hanno ricevuto neanche il più lieve dei buffetti.
Ma perché provo empatia verso quell’unico disgraziato che ha pagato per tutti. Ecco, non mi va che sia l’unica pecora nera in mezzo a un gregge immacolato.

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