
La seconda sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 25530/2002 (udienza del 3 giugno 2022), ha avuto l’occasione di soffermarsi sui criteri generali di valutazione dell’imparzialità del giudice, così come definiti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
L’imparzialità – osserva il collegio decidente ispirandosi a decisioni significative dei giudici di Strasburgo – deve essere apprezzata secondo due criteri: “il criterio soggettivo consiste nello stabilire se dalle convinzioni personali e dal comportamento di un determinato giudice si possa desumere che egli abbia una idea preconcetta rispetto a una particolare controversia sottoposta al suo esame e, sotto tale profilo, l’imparzialità del giudice è presunta fino a prova contraria; il criterio oggettivo impone, invece, di valutare se, a prescindere dalla condotta del giudice, esistano fatti verificabili che possano generare dubbi, oggettivamente giustificati, sulla sua imparzialità, sicché «non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta»”.
È essenziale, nella prospettiva della Corte EDU, “la fiducia che i tribunali in una società democratica
debbono ispirare nel pubblico e, nel processo penale, anzitutto nell’accusato (ex plurimis, tra le più recenti, Corte EDU, sent. 16 ottobre 2018, Daineliene contro Lituania; 31 ottobre 2017, Kamenos contro Cipro; 20 settembre 2016, Karelin contro Russia; Grande Camera, 23 aprile 2015, Morice contro Francia; 15 gennaio 2015, Dragojevie contro Croazia)”.
È sicuramente prioritaria l’attenzione da destinare al criterio oggettivo soprattutto nella sua specifica declinazione concreta del giudice che svolge differenti funzioni nell’ambito di un unico processo nei confronti della stessa persona. Per questo versante, la Corte europea ritiene che “il semplice fatto che il giudice investito del processo abbia già adottato delle decisioni preprocessuali sulla causa, comprese decisioni in materia di custodia cautelare, non può di per sé giustificare timori sulla sua imparzialità; solo speciali circostanze possono giustificare una diversa conclusione”
“Ciò che conta è la portata e il carattere delle misure preprocessuali disposte dal giudice» (sentenza 15 gennaio 2015, Dragojevie contro Croazia; in senso analogo, tra le molte, sentenze 22 aprile 2004, Cianetti contro Italia; 6 giugno 2000, Morel contro Francia). In particolare, difetta l’imparzialità oggettiva quando la valutazione richiesta al giudice, o le espressioni concretamente utilizzate, implichino una sostanziale anticipazione di giudizio (in questo senso, tra le altre, sentenze 22 aprile 2004, Cianetti contro Italia; 25 luglio 2002, Perote Pellon contro Spagna), autorizzando a reputare che il giudice si sia già formata una opinione sull’esistenza del delitto e la colpevolezza dell’imputato (sentenza 22 luglio 2008, Gomez de Liario y Botella contro Spagna) per essersi pronunciato sugli elementi costitutivi dell’illecito (sentenza 24 giugno 2010, Mancel e Branquart contro Francia)”.
La giurisprudenza dei giudici dei diritti umani, pur in assenza di specifiche teorizzazioni, non è peraltro solita intravedere un rischio di pregiudizio nel giudice che abbia svolto valutazioni nella stessa fase processuale in cui dovrà nuovamente pronunciarsi, posto che “Nella generalità dei casi, il pregiudizio all’imparzialità di tipo “funzionale” è stato collegato dalla Corte europea a decisioni assunte in altra e precedente fase del procedimento (tipici i casi dell’adozione di provvedimenti cautelari nella fase preprocessuale o la partecipazione a precedenti gradi di giudizio), ovvero in procedimenti distinti (quali quelli contro soggetti concorrenti nel medesimo reato)”.
Non è quindi ipotizzabile che le norme convenzionali accordino “al diritto della persona da giudicare, in rapporto alla specifica evenienza di cui qui si discute [giudici della Corte d’appello chiamati a pronunciarsi sull’ammissibilità di un’istanza di revisione dopo essersi pronunciati negativamente su una precedente istanza analoga del medesimo condannato – NdA], una tutela più ampia di quella prefigurata dalla norma costituzionale interna – gemellare nell’ispirazione – di cui all’art. 111, secondo comma, della Carta fondamentale”.
E dunque, in conclusione, “La delibazione della stessa questione di ammissibilità della domanda di revisione da parte di un medesimo Collegio della Corte d’appello, realizzatasi sulla base di elementi di valutazione differenti ed accresciuti, non può pertanto creare alcun allarmante pregiudizio incidente sulla neutralità del giudice”.

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