Basta una laurea in giurisprudenza per diventare un buon magistrato? Parliamone! (Vincenzo Giglio)

Sull’edizione digitale di ieri del quotidiano Il Dubbio, Giuseppe Criscenti, consigliere della Corte di cassazione, esprime un giudizio fortemente critico, per non dire irridente, sul cambiamento delle regole per il concorso in magistratura, introdotto nel Decreto Aiuti ter (qui il link all’articolo).

La sua tesi essenziale è che la semplice laurea in giurisprudenza, che d’ora in avanti sarà sostanzialmente l’unico parametro richiesto, sia molto meno di quello che serve per garantire il possesso di un profilo adeguato alle funzioni magistratuali.

Criscenti riconosce l’inadeguatezza di quelli che definisce “espedienti analoghi” sperimentati in passato: due prove scritte al posto delle tre tradizionali, contingentamento dei tempi concessi alle commissioni per la valutazione delle prove, preselezioni informatiche.

Concede che non era stata una cattiva idea l’imposizione di un percorso formativo post-laurea che del resto è adottato in vari Paesi, anche di common law, ma osserva che le nostre scuole formative hanno fallito e individua nella mancata previsione di esami le ragioni del fallimento.

Ricorda che l’accesso con la sola laurea è stato adottato a lungo in passato ma era innestato in un sistema che garantiva mediamente una formazione concettuale adeguata, somministrava conoscenze e saperi in misura significativa e, soprattutto, si misurava con questioni e significati molto meno complessi di quelli contemporanei.

Oggi, sostiene Criscenti, il laureato in giurisprudenza si è preparato su programmi ridotti e non è scontato che abbia mai aperto un manuale, potendolo sostituire con videolezioni e slide.

Lo preoccupa e insieme lo indigna, infine, il gap crescente tra università e magistratura.

Nota infatti che la giurisprudenza italiana è la più autoreferenziale tra le pratiche culturali, è frutto di “punti di vista interni”, ha un linguaggio suo proprio, fatto di “parentetiche, subordinate, sintassi elucubrata” e si risolve quindi in un sapere curiale (di cui non si intravedono mutamenti in positivo) che il laureato ignora e che tuttavia dovrà necessariamente acquisire.

Queste cose, dice Criscenti, sono perfettamente note alla ministra Cartabia ma non le è possibile, come non lo è stato per i suoi predecessori, convincere i “ragionieri”.

Questo sostiene Criscenti e, francamente, mi pare che non abbia detto nulla, certamente nulla di significativo.

A ben vedere, tutto lo delude e lo disgusta ma, quando abbandona la parte distruttiva e passa a quella costruttiva, l’unica idea che tira fuori è che le scuole di formazione post-laurea non hanno funzionato perché non prevedevano esami e quindi, se ho capito bene, sarebbe meglio ripescarle con questo asset aggiuntivo.

Non mi sembra una rivoluzione copernicana e mi sento libero di riprendere dal principio.

C’è un oggettivo problema di reclutamento dei magistrati: con progressione crescente e più che significativa i concorsi più recenti si sono conclusi con una percentuale di vincitori tale da coprire solo in minima parte il numero di posti messi a bando.

C’è un grave effetto di questo problema: non si riesce a diminuire nella misura necessaria l’attuale rilevante scopertura dell’organico della magistratura.

C’è un serissimo riflesso di questi due deficit: se abbiamo pochi magistrati, ci manca un segmento centrale per gli obiettivi di riduzione dell’arretrato dei contenziosi civili e penali che fa perdere percentuali di PIL e reputazione internazionale al nostro Paese ed è comunque una delle condizionalità per riscuotere i fondi del PNRR.

Servono sicuramente e vanno programmate riforme di medio e lungo periodo che incidano sulla qualità dell’insegnamento universitario e sul gap tra accademia e professioni.

Serve non lasciare completamente in mano a organismi privati – i più prestigiosi dei quali, ironia della sorte, sono stati creati o ispirati da magistrati o hanno magistrati come docenti di richiamo – la formazione di più alta qualità.

Servono molte cose, certo, ma qualcosa bisogna fare subito e la prima e più rapida soluzione è stata individuata nell’aumento immediato della platea dei candidati che, a partire dai prossimi concorsi, coincideranno con i laureati in giurisprudenza.

È ragionevole? Sì, lo è, perché nel breve periodo è l’unica possibile.

Si corre il rischio di aumentare a dismisura il numero dei candidati inadeguati? , anzi è una certezza, ma qualcosa di buono accadrà lo stesso: tra quei tanti candidati in più ci sarà almeno una piccola aliquota fatta di gente giovane, brillante e curiosa.

Queste donne e questi uomini non saranno più costretti a stare in panchina anni e anni, imprigionati in scuole di specializzazione che non specializzano in nulla, vittime di docenti (e tra questi non difettano certo i magistrati) che, fatte salve le dovute e meritorie eccezioni, si limitano a ripetere stancamente i programmi universitari, ricorrendo per lo più a lezioni frontali che ucciderebbero di noia un maestro zen, rifuggendo per lo più da qualsiasi sperimentazione che riduca il gap tra università e professioni legali, non proponendo per lo più alcuna traccia del mondo reale al quale sono destinati i corsisti (mica chi sa che, sarebbe già tanto tirar fuori una sentenza, una comparsa conclusionale, un appello, roba così e poi ragionarci su, analizzarli, coglierne i tratti distintivi, delineare necessità e strategie, indicare metodi).

Questi esseri umani potranno quindi misurarsi immediatamente con la complessità del concorso, senza essere stati distratti dal nulla o quasi nulla della formazione post-universitaria gestita dalle stesse università che, come ammette anche Criscenti, gli hanno dato ben poco di quello che gli serviva.

Avranno a disposizione la loro intelligenza, se ne hanno, il senso del diritto che sono riusciti a ricavare da insegnamenti ad assetto variabile, se lo hanno ricavato, le conoscenze extra-moenia che sono riusciti ad acquisire con percorsi autonomi individuali, se ci sono riusciti.

Se ce la faranno, saranno, loro e gli altri meno fortunati che la panchina l’hanno fatta per intero, i magistrati di domani.

E dovranno addestrarsi con il periodo formativo previsto per i neo-magistrati.

Questo tirocinio interno meriterebbe un discorso a parte ma lo si tralascia.

Criscenti ci dà tuttavia un indizio importante, non di ciò che è giusto ma di ciò che è sbagliato.

Ci dice che la giurisprudenza italiana è massimamente autoreferenziale e si esprime con una linguaggio che più esoterico non si può.

Ha ragione da vendere, lo constatiamo ogni giorno, lo leggiamo ogni volta nelle non poche decisioni illogiche e sgrammaticate che la giustizia, e la Corte di cassazione non fa certo eccezione, propina ai suoi utenti.

Ma Criscenti ha anche torto quando afferma che quel sapere sgraziato e incomprensibile dovrà essere acquisito da quei giovani talenti che ce l’avranno fatta.

E perché mai dovrebbe essere così? Chi l’ha detto che dovremo continuare a boccheggiare leggendo atti giudiziari? Perché non dovrebbe essere il contrario? Perché non dovremmo sperare che siano i consiglieri di cassazione a fare un passo indietro e si dispongano ad imparare la freschezza e la linearità di pensiero e linguaggio che hanno smarrito, se mai l’hanno avuta?