Esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria: quale trattamento sanzionatorio? (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 5 con la sentenza numero 35290 depositata il 21 settembre 2022 ha esaminato la questione relativa alla nuova disposizione normativa che ha ridisegnato integralmente la cornice edittale quanto al reato di intermediazione finanziaria abusiva, e di conseguenza non si può ritenere tuttora operante il raddoppio dei termini previsti dalla precedente disposizione di cui alla L. n. 262 del 2005, art. 39, che aveva inciso sul sistema normativo previgente

Come premesso, la questione posta dal ricorso esaminato dalla Suprema Corte afferisce ai limiti edittali previsti per il reato di cui all’art. 132 TUB, ed al conseguente termine di prescrizione. Secondo il Procuratore ricorrente, andrebbe applicata la normativa di cui all’art. 39 della legge n. 262 del 2005, che ha disposto il raddoppio delle sanzioni previste, tra l’altro, dal T.U. bancario; sicché il limite edittale massimo per il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria andrebbe individuato nella pena di otto anni di reclusione, il doppio della pena prevista dall’art. 132 TUB; con la conseguenza che il termine massimo di prescrizione è pari a dieci anni.

Per una migliore comprensione della decisione esaminata, va ricordato che l’art. 132, D. Lgs. 385/1993 (di seguito T.U.B.) sul reato di abusiva attività finanziaria, nella sua originaria formulazione recitava «1. Chiunque svolge una o più delle attività finanziarie previste dall’art. 106, comma 1, senza essere iscritto nell’elenco previsto dal medesimo articolo ovvero nell’apposita sezione del medesimo elenco indicata nell’art. 113 è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da lire quattro milioni a lire venti milioni.

La pena pecuniaria è aumentata fino al doppio quando il fatto è commesso adottando modalità operative tipiche delle banche o comunque idonee a trarre in inganno il pubblico circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria».

L’art. 39 della L. 28 dicembre 2005, n. 262 novellò la disposizione nel senso che, con una previsione di carattere generale che riguardava, tra l’altro, anche le fattispecie incriminatrici del T.U.B., ha previsto: «Le pene previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 10 settembre 1993, n. 385, dal testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, dalla legge 12 agosto 1982, n. 576, sono raddoppiate entro i limiti posti per ciascun tipo di pena dal libro I, titolo II, capo II, del codice penale».

In conseguenza di tale disposizione, le pene detentive originariamente previste dall’art.132 T.U.B. furono portate nel minimo ad un anno e nel massimo ad otto di reclusione.

Successivamente, però, l’art. 8, comma 2, L. 13 agosto 2010, n. 141 ha previsto: «L’articolo 132 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, è sostituito dal seguente: “Art. 132. Abusiva attività finanziaria 1. Chiunque svolge, nei confronti del pubblico una o più attività finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1, in assenza dell’autorizzazione di cui all’articolo 107 o dell’iscrizione di cui all’articolo 111 ovvero dell’articolo 112, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 2.065 ad euro 10.329».

Ciò posto, come detto, nell’ottica del Procuratore ricorrente, l’art. 8 d.lgs. 141/2010, nel sostituire integralmente l’art. 132 TUB, non avrebbe fatto venir meno il raddoppio di pena previsto dal citato art. 39, che, in quanto norma di portata generale, resta applicabile a tutti i reati previsti dal TUB, tanto propugnando sulla base dell’orientamento accreditato dalla sentenza Sez. 5, n. 18544 del 27/02/2013, Strada, Rv. 255192, che ha ribadito l’ultrattività del raddoppio delle pene previsto dall’art. 39 legge n. 262 del 2005 anche con riferimento al reato di cui all’art. 132 TUB, sulla base di un’interpretazione secondo l’intenzione del legislatore (art. 12 disp. Prel. cod. civ.), in quanto fondata sui limiti della legge delega nell’esercizio della quale è stato emanato l’art. 8 I. 141/2010. Secondo tale lettura, il legislatore del 2010, dunque, oltre ad integrare il precetto, avrebbe operato anche sull’apparato sanzionatorio, aggiornando la multa da lire in euro e lasciando inalterata la cornice edittale della vecchia formulazione dell’art. 132, anteriore alla novella di cui all’art. 39 I. 262 cit.

Gli Ermellini tuttavia, pur consapevoli della pronunzia di segno contrario più risalente, che legittima sul piano euristico la tesi sostenuta in ricorso, (Sez. 5, n. 18544/2013 cit.), hanno ritenuto condivisibile l’alternativo orientamento espresso da altre, più recenti, pronunzie della cassazione (Sez. 5, n. 12777 del 16111/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996; Sez. 2, n. 43670 del 23/09/2021, Piromalli, Rv. 282311; Sez. 5, n. 18317 del 16/12/2016, dep. 2017, Kienesberger, Rv. 269616, non massimata sul punto), secondo cui la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge 13 agosto 2010, n. 141, avendo integralmente sostituito il testo originario dell’art. 132 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, riformulandone sia la parte precettiva che quella sanzionatoria, ha tacitamente abrogato, con riferimento a detta fattispecie, la previsione dell’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che stabiliva il raddoppio delle pene comminate, tra l’altro, dal predetto d.lgs. n. 385 del 1993.

L’adesione a questo orientamento fonda sulla condivisione delle caratteristiche del fenomeno verificatosi, correttamente individuato, nella sentenza Albertazzi, come di successione di leggi penali nel tempo con abrogazione tacita — ai sensi dell’art. 15 delle preleggi — della disposizione frutto del combinato disposto dell’originario art. 132 T.U.B. e dell’art. 39 L. 262 cit., abrogazione determinata dalla sostituzione integrale della disposizione precedente.

La nuova previsione, infatti, ha integralmente preso il posto di quella già vigente e la scelta di lasciare inalterata la pena detentiva rispetto all’originario apparato sanzionatorio, pur nella consapevolezza del legislatore che nelle more vi era stata la modifica in peius di cui all’art. 39 cit., non può avere altro significato che quello di una riscrittura integrale della disposizione, con la precisa volontà di riportare la sanzione a quella anteriore alla legge n. 262 cit.

D’altronde è significativa della volontà legislativa di intervenire nuovamente sull’apparato sanzionatorio, neutralizzando la severità dell’intervento normativo del 2005, la modifica che la L. 141 ha comportato rispetto alla pena pecuniaria. Premesso che la novella del 2005 aveva riguardato anche la multa — come può evincersi dal fatto che l’art. 39 recita: «Le pene previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 10 settembre 1993, n. 385 [] sono raddoppiate [….) — nello stabilire la conversione della multa da lire in euro, il legislatore della L. 141 non ha tenuto conto dei valori rideterminati all’esito del raddoppio. Nel testo dell’art. 132 introdotto dalla I. 141, infatti, la cornice edittale per la pena pecuniaria è stata stabilita in euro 2065 nel minimo ed in euro 10329 nel massimo, valori corrispondenti, al netto dei decimali, al quantum di pena pecuniaria stabilito in lire nel testo originario dell’art. 132 T.U.B. e non all’ammontare della multa all’esito del raddoppio.

Tale specifico intervento conferma, dunque, che la scelta legislativa è stata quella di ristabilire il range edittale anteriore all’inasprimento delle pene della legge 262.