Nozione penale di profitto e intrecci con confisca diretta e per equivalente: i chiarimenti della Cassazione

Una recentissima decisione della Suprema Corte (Sez. 6^, sentenza n. 33757/2022, udienza del 20 giugno 2022) contiene un interessante e sistematico approfondimento della nozione penale di profitto.

Il collegio parte dalla constatazione che né il codice penale né le disposizioni di parte speciale che prevedono la confisca definiscono il concetto di profitto.

Si può tuttavia contare su vari principi messi progressivamente a punto dalla giurisprudenza, anche a Sezioni unite.

Il profitto rilevante ai fini della confisca deve possedere la caratteristica della pertinenzialità, cioè derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Rv. 205707; Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, in motivazione; Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, in motivazione; Sez. Un., n. 41936 del 25/10/ 2005, Rv. 232164; Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Rv. 239924; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, in motivazione).

La connessione immediata e diretta tra reato e profitto esiste anche nel caso dei “surrogati”, cioè i beni acquisiti attraverso l’impiego o la trasformazione immediati del profitto diretto del reato. In assenza dell’immediatezza viene meno anche la pertinenzialità (Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009).

Il profitto, in coerenza al principio di causalità ed ai requisiti di materialità e attualità, deve consistere in un mutamento materiale, attuale e di segno positivo, della situazione patrimoniale del suo beneficiario, generato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica. Non è profitto invece un vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, dep. 2014, Rv. 258577).

In questo ambito concettuale si è collocata la decisione n. 2014/2014 delle Sezioni unite  che ha recepito una nozione di profitto funzionale alla confisca assai più estesa e tale da comprendere “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa… la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Il concetto di profitto o provento di reato dovrebbe intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

Ancora di seguito le stesse Sezioni unite (sentenza n. 31617/2015) hanno ribadito il principio secondo cui profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato.

Riconosciuta così la necessità della diretta derivazione dal reato del profitto, si pone il tema della sua quantificazione.

Soccorre ancora una volta la giurisprudenza delle citate Sezioni unite (sentenza n. 26654/2008, Rv. 239924).

Il principio di diritto fissato da quella decisione contiene anzitutto una regola generale che può essere così riassunta: “a) nel linguaggio penalistico il termine “profitto” assume un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non essendo mai stato inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito; b) all’espressione “profitto” va attribuito il significato di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, a superamento “quindi dell’ambiguità che il termine “vantaggio” può ingenerare”; e) la nozione di profitto confiscabile è diversa e più ristretta di quella di profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 del d.lgs n. 231/2001 evocando, solo quest’ultimo, un concetto di profitto “dinamico”, rapportato alla natura e al volume dell’attività d’impresa e comprensivo dei vantaggi economici anche non immediati, ma “di prospettiva”, in relazione, ad esempio, alla posizione di privilegio che l’ente collettivo può acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi””.

La decisione del 2008 definì anche una regola di esclusione: “non può ritenersi profitto del reato, e come tale non è legittimamente confiscabile, il “corrispettivo di una prestazione lecita… regolarmente eseguita dall’obbligato”, benché nell’ambito di un rapporto contrattuale inquinato, nella fase di formazione o in quella di esecuzione, dalla commissione di un reato”.

In altre parole, secondo le Sezioni unite “il profitto si identifica con il vantaggio economico derivato dal reato “al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”. Tale conclusione è fondata sulla distinzione tra impresa criminosa, quella, cioè, stabilmente dedita alla commissione di reati, ed esercizio di un’attività imprenditoriale lecita, nel cui ambito venga realizzato un illecito penale. Il profitto viene identificato nel ricavo lordo quando “s’inserisce […] validamente, senza alcuna possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita”. Quando, invece, l’illecito penale si innesta […] episodicamente in un’attività imprenditoriale lecita, e, in particolar modo, “nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica”, l’identificazione del profitto con il lordo “può subire, per cioè dire, una deroga o un ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione””.

Nasce da qui la necessità di valorizzare la distinzione tra reato-contratto e reato in contratto.

Devono cioè essere distinti “i casi in cui la legge direttamente sanzioni il regolamento contrattuale (reato-contratto) – ipotesi nelle quali il contratto è nullo per contrarietà a norme imperative ex art. 1418, comma 1, cod. civ., ovvero per illiceità dell’oggetto – dai casi in cui la legge penale punisca, invece, il comportamento di una parte soltanto nella fase pregressa, di tal che penalmente rilevante non è l’assetto di interessi raggiunto, ma la condotta tenuta da una parte ai danni dell’altra per raggiungerlo (reato in contratto)”.

La conseguenza è che “la remunerazione di una prestazione lecita, ancorché eseguita nell’ambito di un affare illecito, “non può ritenersi sine causa o sine iure”; e, quindi, non costituisce profitto di un illecito, ma profitto avente “titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale””.

È poi necessario sottolineare che “la distinzione tra reato – contratto e reato in contratto attiene alla individuazione dei rapporti tra norme di comportamento e norme di validità contrattuale e, in particolare, alla individuazione delle ipotesi in cui un contratto stipulato in violazione di norme penali debba considerarsi posto in essere in violazione di norme imperative, e quindi sia strutturalmente nullo, da quelle in cui, invece, la violazione della norma renda comunque il contratto efficace, ancorché annullabile (reato – in contratto). Il problema della distinzione tra norme imperative di comportamento e norme imperative di validità non si pone, chiaramente, nei casi di nullità testuale ed in quelli di nullità strutturale del contratto. Nelle “nullità testuali” (art. 1418, comma 3, cod. civ.) infatti è la legge che, prevedendo la sanzione della nullità, qualifica il precetto violato in termini di norma di validità. Nella “nullità strutturale” (art. 1418, comma 2, cod. civ.), il contratto è nullo perché strutturalmente privo dei suoi requisiti costitutivi indicati nell’art. 1325 cod. civ., ovvero perché manca nell’oggetto qualcuno dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 cod. civ.: il contratto è nullo per deficienza strutturale”.

Il problema riguardo piuttosto la cosiddetta nullità virtuale, cioè quella prevista dall’art. 1418, comma 1, cod. civ., la quale, secondo la dottrina, richiede tre presupposti: “Il primo presupposto è che il contratto si ponga in contrasto con una norma imperativa, cioè con una norma posta a tutela di un interesse pubblico o generale, quindi non derogabile da parte dei singoli. Anche le norme per la cui violazione l’ordinamento prevede la sanzione della annullabilità del contratto sono norme imperative, e quindi inderogabili, e tuttavia in tali casi, in considerazione della valenza pregnante che assume l’interesse del contraente, la sorte del contratto viene rimessa al contraente medesimo. Il secondo presupposto è che la legge non “disponga diversamente”. La legge “dispone diversamente” in tutti i casi in cui, pur essendo in presenza della violazione di una norma imperativa, ne viene tuttavia espressamente esclusa la sanzione della nullità. Il terzo presupposto è che la norma imperativa, da una parte, abbia ad oggetto il contratto, cioè deve riguardare la struttura o il contenuto del contratto (vietandolo o imponendogli requisiti necessari), e non solo il comportamento delle parti contraenti, e, dall’altra, nulla dica sugli effetti che dalla sua violazione discendano sulla validità del negozio, atteso che, diversamente, si tratterebbe di una ipotesi di nullità testuale. Dalla violazione di una norma di validità del contratto è tradizionalmente distinta la violazione di una norma di comportamento da parte dei contraenti, che può attenere alla fase precontrattuale, non incidendo in tal caso, tuttavia, la violazione sulla validità del contratto – ferma restando la possibile responsabilità dell’autore – ovvero alla fase esecutiva, ma anche in tal caso, ferma restando la responsabilità da inadempimento di obblighi specifici, il contratto continua ad essere efficace”.

Sul punto merita di essere segnalato un utile intervento delle Sezioni unite civili (sentenza n. 26724 del 19/12/2007, Rv. 600329) le quali hanno ribadito che “in relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, in difetto di espressa previsione in tal senso (c.d. “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità dei contraenti, che può al più essere fonte di responsabilità”.

Dati questi chiarimenti, il collegio della sesta sezione ha ritenuto necessario chiarire l’intreccio tra la nozione penale di profitto e la confisca di somme di denaro che ha natura di confisca diretta.

Queste le puntualizzazioni al riguardo:

– “la confisca per equivalente, rappresentando una alternativa alla confisca diretta – operando solo quando non può trovare applicazione la ordinaria misura di sicurezza patrimoniale – presuppone che il relativo oggetto (vale a dire il prezzo o il profitto del reato) abbia una sua consistenza naturalistica e/o giuridica tale da permetterne l’ablazione, nel senso che, una volta entrato nel patrimonio dell’autore del reato, continui a mantenere una sua identificabilità;

– ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica;

– non avrebbe ragion d’essere – né sul piano economico né su quello giuridico – la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo;

– soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato;

– la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato pur in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente non determina una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza la eventuale movimentazione di un determinato conto bancario”.

E dunque “se è vero che il sequestro preventivo di somme di denaro deve essere qualificato – in ragione della fungibilità del bene- come funzionale alla confisca diretta del profitto e che la confisca – misura di sicurezza del profitto storico – deve avere ad oggetto quello effettivamente rinvenuto nella disponibilità dei singoli concorrenti nel reato, è altrettanto vero che il principio in questione presuppone, al fine della qualificazione del sequestro come funzionale alla confisca diretta, che il denaro  – profitto storico derivante dal reato – sia comunque entrato nella disponibilità del destinatario del sequestro e poi si sia confuso nel suo patrimonio. In assenza della prova che il patrimonio dell’indagato si sia accresciuto del profitto storico derivante dal reato, il sequestro deve considerarsi disposto in funzione della confisca per equivalente”.

Quanto all’ulteriore questione dei limiti entro i quali può essere aggredito il patrimonio del singolo concorrente con il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, le Sezioni unite hanno reso questo chiarimento: “Di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Più in particolare, perduta l’individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato  all’arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi (Sez. unite, 14/6/2006 n. 31989)”.

In altri termini, “ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti” (così, testualmente, Sez. U., n. 26654 del 2008). Dunque, solo nel caso in cui la natura della fattispecie concreta ed i rapporti economici ad essa sottostanti non consentano d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti”.