Ieri
Nei primi anni Duemila la procura della Repubblica di Catanzaro istruì un’inchiesta fondata su una precisa tesi accusatoria: nella città di Reggio Calabria si sarebbe costituito un gruppo di pressione configurato alla stregua di un’associazione mafiosa, che avrebbe avuto lo scopo di bloccare o comunque depotenziare l’attività della Direzione distrettuale antimafia (DDA) reggina così da potersi intromettere nella gestione delle risorse pubbliche stanziate dal governo centrale per importanti investimenti pubblici nella città dello Stretto.
Sempre secondo la tesi d’accusa, quel gruppo avrebbe potuto contare sulla disponibilità di una pubblicazione periodica locale che aveva il compito di denigrare in modo martellante alcuni magistrati della DDA reggina.
La Procura catanzarese ipotizzò inoltre che la campagna condotta da quel periodico si giovasse della collaborazione di due impiegate amministrative in servizio presso uffici giudiziari di Reggio Calabria che avrebbero fornito costantemente notizie riservate al suo direttore consentendogli di apparire come soggetto bene informato sugli affari interni della magistratura reggina.
A novembre del 2004 furono eseguiti gli arresti di sei persone accusate di avere fatto del gruppo.
Assieme ad esse entrarono nell’inchiesta ulteriore decine di indagati tra i quali figuravano parlamentari, un sottosegretario alla giustizia, la vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia in carica, funzionari della Polizia di Stato, militari dell’Arma dei Carabinieri, agenti del SISDE, esponenti politici locali, dirigenti pubblici, un primario ospedaliero.
In questa folta schiera fu inserito anche un magistrato, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, il quale subì un provvedimento di perquisizione nella sua abitazione poiché sospettato di essersi prestato all’”aggiustamento” di un processo.
Come si può immaginare, l’indagine e gli arresti destarono grande scalpore e si riverberarono nel dibattito politico.
I magistrati individuati come parti offese proclamarono la loro soddisfazione per essere stato finalmente individuato il disegno della ‘Ndrangheta che si proponeva di colpire la parte della magistratura che la contrastava con maggiore impegno.
Il procuratore nazionale antimafia in carica si disse persuaso che l’inchiesta potesse contare su elementi concreti, bene evidenziati dal redattore dell’ordinanza cautelare.
Il presidente della commissione parlamentare antimafia promise a sua volta l’immediata acquisizione degli atti del procedimento.
Nonostante questo compiacimento corale, il GUP catanzarese, con una sentenza emessa a maggio del 2009, prosciolse gli indagati superstiti (per alcuni era già intervenuta l’archiviazione) per insussistenza di tutti i reati e revocò il sequestro del periodico locale disposto più di quattro anni prima.
Una menzione particolare va riservata all’epilogo della vicenda giudiziaria per il magistrato accusato di concorso in associazione mafiosa.
Dopo la divulgazione a mezzo stampa dell’indagine catanzarese, l’interessato chiese ripetutamente ai PM titolari di essere ascoltato ma le sue istanze non furono prese in considerazione.
A gennaio del 2006, quando era passato più di un anno, la Procura di Catanzaro constatò di non essere competente per quella specifica posizione e trasmise gli atti all’omologo ufficio di Roma che chiese e ottenne l’archiviazione del procedimento.
Il magistrato, non pago del risultato ottenuto, avviò con successo un’azione civile nei confronti dello Stato ai sensi della L. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.
Il tribunale di Salerno, competente a giudicare, si è pronunciò nel 2015, accogliendo la domanda e condannando al risarcimento dei danni la Presidenza del Consiglio dei Ministri, avendo rilevato che la Procura del capoluogo calabro aveva «formulato gravissime imputazioni (come appunto quella di concorso esterno in associazione mafiosa) prive di qualsivoglia elemento o supporto e omettendo qualsiasi pur minima motivazione» e che «L’imputazione a B. era del tutto priva di adeguato riscontro. Il Gup del tribunale di Roma ha prosciolto non già in forza di sopravvenienze investigative, ma sulla base di una mera presa d’atto (conforme alla requisitoria della stessa procura romana) che fin dall’inizio mancava nelle indagini qualsiasi elemento, sia pure di mero sospetto[…]. Inoltre il decreto di perquisizione (emesso pur a fronte di qualsiasi serio fondamento investigativo) si mostra del tutto privo di motivazione, essendo riportata esclusivamente la formula di mero stile, secondo cui si riteneva che in casa dell’imputato potessero essere rinvenute cose pertinenti al reato […] Le indagini a carico del B. hanno avuto una durata assolutamente irragionevole, e sono state svolte in assenza di qualsiasi criterio di collegamento di competenza territoriale».
Un naufragio, non c’è altro modo per definire l’epilogo del procedimento di cui si è appena parlato.
Oggi
La Corte costituzionale ha depositato ieri la sentenza n. 202/2022 (presidente Amato, estensore Navarretta, camera di consiglio del 6 luglio 2022), allegata alla fine del post.
Il giudizio è stato occasionato da un’ordinanza di rimessione della terza sezione civile della Corte di cassazione che ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 Cost., dell’art. 2, comma 1, (nel testo previgente alle modifiche apportate dalla L. n. 18/2015) della Legge n. 117/1988 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati) nella parte in cui limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo a quelli derivanti dall’illegittima privazione della libertà personale, e del nuovo art. 2, comma 1, lettera a) introdotto dalla citata L. 18/2015, nella parte in cui, pur avendo esteso la risarcibilità dei danni non patrimoniali, non consente l’estensione ai giudizi ancora in corso per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore.
Così riassume il fatto la sentenza della Consulta:
“2.- In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare sulla richiesta, avanzata da P.A. B., di risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti al suo erroneo coinvolgimento in un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, nel quale si ipotizzava un suo concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso”.
“2.1.– Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo espone che il ricorrente era stato sottoposto a una perquisizione personale e domiciliare e che questa notizia aveva avuto una vasta eco giornalistica. Il ricorrente aveva domandato inutilmente di essere sentito dai pubblici ministeri inquirenti e, solo dopo due anni, la sua posizione era stata stralciata e rimessa alla Procura competente che, effettuato l’interrogatorio, aveva richiesto l’archiviazione, disposta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Roma”;
“2.2.– La Corte di cassazione riferisce che il ricorrente aveva promosso un’azione per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali e che il Tribunale ordinario di Salerno aveva emesso inizialmente un decreto di inammissibilità del ricorso, poi riformato in sede di reclamo dalla Corte d’appello di Salerno, che aveva rimesso gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio. Il Tribunale aveva quindi accolto parzialmente la domanda del ricorrente, escludendo il risarcimento dei danni non patrimoniali, in assenza di condotte lesive della libertà personale dell’attore. Il ricorrente aveva, quindi, proposto appello, insistendo per la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, mentre la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva chiesto l’integrale rigetto della domanda risarcitoria, resistendo e proponendo appello incidentale. La Corte d’appello di Salerno – riporta ancora il giudice a quo – aveva rigettato entrambi i gravami e aveva confermato la sentenza impugnata; pertanto, P.A. B. aveva proposto ricorso per cassazione”.
Si rinvia alla sentenza allegata per l’iter argomentativo e si prendono in rassegna le conclusioni.
La Corte costituzionale ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo all’art. 2, comma 1, L. n. 117/1988 nella sua formulazione antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), L. n. 118/2015.
Queste in sintesi le ragioni:
- Nel vecchio regime “il perimetro tracciato dal legislatore risultava ispirato a una duplice scelta. Per un verso, veniva garantito il risarcimento dei medesimi danni suscettibili di essere liquidati, in quel momento storico, sulla base delle norme generali: il danno patrimoniale; il danno biologico, inquadrato all’epoca nell’art. 2043 cod. civ., quale tertium genus ascrivibile al danno ingiusto (sentenza n. 184 del 1986) o – secondo una diversa prospettiva – quale danno lato sensu patrimoniale, categorie entrambe menzionate dall’art. 2; e, infine, il danno non patrimoniale da reato, riconducibile alle «norme ordinarie», che si riespandevano, ai sensi dell’art. 13, in presenza di un illecito penale. Per un altro verso, il legislatore del 1988 – a seguito di un vivace confronto parlamentare e in una fase storica in cui già ferveva il dibattito su possibili prospettive di ampliamento della risarcibilità dei danni non patrimoniali, specie a tutela dei diritti della persona – ammetteva la piena protezione risarcitoria, estesa a tali danni, nella sola ipotesi di privazione della libertà personale. Veniva, dunque, selezionato e protetto il diritto inviolabile di cui all’art. 13 Cost., implicato a fronte di coercizioni fisiche, ovvero di forme di «privazione o restrizione», aventi a oggetto il corpo della persona”.
- Negli anni successivi all’entrata in vigore della L. 117/1988 “la regola generale di cui all’art. 2059 cod. civ. è stata sottoposta a un radicale cambiamento ermeneutico. Con cinque pronunce, di identico tenore, la Corte di cassazione (terza sezione civile, sentenze 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827 e 12 maggio 2003, n. 7283, n. 7282 e n. 7281), dopo oltre un ventennio di riflessioni dottrinali incentrate sulla necessità di estendere, a tutela della persona, la risarcibilità dei danni non patrimoniali, ha optato per un’interpretazione adeguatrice alla Costituzione dell’art. 2059 cod. civ. In particolare, la lesione dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., è stata ascritta ai «casi previsti dalla legge», che ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. consentono il risarcimento dei danni non patrimoniali. Più precisamente, sia la previsione, nell’art. 2 Cost., della “garanzia” dei diritti inviolabili della persona, sia il senso stesso dell’inviolabilità, proiettata nei rapporti orizzontali, sono stati ritenuti idonei a recepire implicitamente il rinvio di cui all’art. 2059 cod. civ. Ai diritti inviolabili della persona non può negarsi la tutela civile offerta dal risarcimento dei danni non patrimoniali che, non differenziando i danneggiati in base alla loro capacità di produrre reddito, assicura una protezione basilare, riconoscibile a tutti e idonea a svolgere una funzione solidaristico-satisfattiva, talora integrata – in presenza di una particolare gravità soggettiva dell’illecito e relativamente alla componente del danno morale – anche da una funzione individual-deterrente”.
- E così “L’evoluzione ermeneutica dell’art. 2059 cod. civ. […] di fatto ha finito per rendere ancora più evidente il contrasto fra la scelta selettiva operata dall’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 e l’esigenza di una piena tutela risarcitoria di tutti i diritti inviolabili della persona”.
- Esclusa la possibilità “di una applicazione sopravvenuta, alla responsabilità civile del magistrato, dell’art. 2059 cod. civ., raccordato con l’art. 2 Cost., nei termini di una interpretazione costituzionalmente orientata”, ciò che rimane è una disciplina irragionevole: “La selezione di un unico diritto inviolabile della persona (la libertà di cui all’art. 13 Cost.), cui garantire, a fronte di un illecito civile, piena ed effettiva tutela risarcitoria, appalesa oggi, con il maturare della consapevolezza circa la rilevanza e le funzioni del risarcimento dei danni non patrimoniali a tutela dei diritti inviolabili della persona, i tratti della irragionevolezza e, dunque, della contrarietà all’art. 3 Cost.”.
- E infatti “In primo luogo, la selezione di un solo diritto inviolabile della persona da proteggere con il risarcimento dei danni non patrimoniali, anche fuori dai casi di reato, non è giustificata dalla specificità dell’illecito civile da esercizio della funzione giudiziaria. L’esigenza di preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rileva nella definizione del confine fra lecito e illecito e nella dialettica tra azione civile diretta nei confronti dello Stato e azione di rivalsa nei riguardi del magistrato. Sono questi i profili della disciplina vòlti a realizzare il «delicato bilanciamento» tra i principi di cui agli artt. 101 e 103 Cost. e gli interessi di chi risulta «ingiustamente danneggiato» (sentenza n. 164 del 2017, che richiama affermazioni già svolte nella sentenza n. 2 del 1968). Viceversa, una volta delimitato il campo dell’illecito, a beneficio della serenità e dell’autonomia del giudice nello svolgimento delle sue funzioni (sentenze n. 49 del 2022, n. 164 del 2017, n. 18 del 1989, n. 26 del 1987 e n. 2 del 1968), non si ravvisano ragioni idonee a giustificare una compressione di quella tutela essenziale dei diritti inviolabili della persona, che è data dal risarcimento dei danni non patrimoniali”. Così come, “l’irragionevolezza diviene ancora più evidente, ove si consideri che l’autonomia del magistrato è preservata anche dal carattere indiretto della responsabilità, nonché dai limiti posti all’azione di rivalsa. In un simile contesto, la compressione della tutela civile dei diritti inviolabili della persona si traduce in una irragionevole limitazione della responsabilità civile dello Stato e del magistrato”.
- “In secondo luogo, se è vero che la libertà personale, di cui all’art. 13 Cost., può ritenersi esposta a subire pregiudizi particolarmente gravi per effetto dell’illecito del magistrato, simile circostanza rileva su un piano meramente di fatto, del tutto inidoneo a giustificare l’esclusione dalla tutela degli altri diritti inviolabili della persona, parimenti suscettibili di subire danni in conseguenza di una acclarata responsabilità del magistrato. Al contempo, pur potendosi ben configurare, in concreto, diversi livelli di gravità dell’illecito, nondimeno è certamente da escludere una astratta differenziazione, rispetto a un rimedio civile che offre una tutela basilare, dei diritti inviolabili della persona, evocatrice, in tale ambito, di una insostenibile gerarchia interna a tale categoria di diritti”.
Per questo complesso di ragioni, la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità del testo previgente dell’art. 2, comma 1, L, 117/1988, nella parte in cui limita il risarcimento dei danni non patrimoniali alla sola lesione della libertà personale, escludendo dalla medesima tutela gli altri diritti inviolabili della persona garantiti dall’art. 2 Cost. (compreso il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.).
Ha per contro ritenute infondate le censure mosse contro il vigente art. 2, comma 1, lettera a), della medesima legge poiché “Con le citate questioni si lamenta, infatti, la mancata applicazione retroattiva, ai processi in corso per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, della modifica apportata dalla medesima legge all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988. Sennonché, la norma di cui si prospetta l’applicazione retroattiva ha un contenuto che finisce per combaciare, salvo per l’appunto il profilo temporale, con quello della norma che, all’esito del giudizio di legittimità costituzionalità sull’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla riforma, risulta applicabile ai fatti antecedenti al 2015”.
Per finire
La Corte costituzionale ha posto correttamente rimedio ad una lacuna normativa originata da una finalità protezionistica che, ammantandosi del nobile scopo di proteggere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, finiva in realtà per ostacolare risarcimenti sacrosanti a chi aveva subito una lesione dei suoi diritti inviolabili in virtù di uno scorretto esercizio delle funzioni giudiziarie. Bene così.
La questione non si esaurisce tuttavia con l’eliminazione di una norma incostituzionale. Di essa fanno parte iniziative giudiziarie ancora più irragionevoli di quella norma. Il resoconto, sia pure stringato, di quanto accaduto al magistrato che ancora oggi chiede giustizia, dimostra plasticamente quanto la funzione giudiziaria, ove maldestramente esercitata, possa allontanarsi dal senso comune prima ancora che dalle regole normative e quanto danno e pena possa provocare alla vittima di turno.
Non dovrebbe essere così, non dovrebbe essere consentito che un magistrato si allontani così tanto dai suoi doveri e non dovrebbe accadere, come oggi ancora accade, che il prezzo di queste cattive pratiche sia posto a carico della collettività piuttosto che di chi le ha compiute.
Sia chiaro, non si tratta di avallare un revanscismo becero, non è questo. Si parla di responsabilità e di conseguenze, solo di questo.
