Proroga del 41-bis: come si valuta l’attualità della pericolosità (di Vincenzo Giglio)

La vicenda

PA, detenuto in espiazione pena sottoposto al regime differenziato regolato dall’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario, si è rivolto al Tribunale di sorveglianza per reclamare contro il provvedimento ministeriale che ha prorogato il medesimo regime.

Il suo reclamo è stato respinto.

PA, per il tramite dei suoi difensori, ha fatto ricorso per cassazione.

Il ricorso è stato assegnato alla prima sezione penale della Suprema Corte che lo ha definito con la sentenza n. 32951/2022, in esito all’udienza del 14 luglio 2022.

Le ragioni della decisione della Corte di cassazione

La prima parte della sentenza della Corte si risolve nell’individuazione delle ragioni giustificative del regime ex art. 41-bis, comma 2, Ord. Pen., così descritte: “ Costituisce approdo ormai pacifico nella giurisprudenza costituzionale che il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 376 del 1997; ordinanza n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998 e più, di recente, sentenze n. 186 del 2018 e 97 del 2020). Con l’applicazione del regime differenziato si intende, quindi, evitare che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare a tenere contatti illeciti e ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose in seno all’organizzazione stessa (sentenza n. 143 del 2013)”.

Segue un’analoga operazione chiarificatrice per la proroga del regime: “Ai fini dell’adozione del provvedimento di applicazione di tale regime che comporta la sospensione, in tutto o in parte, delle ordinarie regole del trattamento penitenziario nei confronti dei soggetti condannati o imputati per gravi reati espressamente individuati, occorrono «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva». Non si esige sul punto un giudizio di certezza secondo i parametri dell’accertamento probatorio ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, ma la formulazione dì una ragionevole previsione sulla scorta dei dati conoscitivi acquisiti, fra cui assumono primaria rilevanza, sempre in chiave di valutazione prognostica, quelli desumibili dai fatti di cui alle condanne già intervenute o ai procedimenti ancora in corso (fra le altre, Sez. 1, n. 4857 del 10/03/2016, Rv. 267248)”.

Si chiariscono ulteriormente gli scopi  e i parametri dell’accertamento giudiziale: “Si tratta, quindi, di un accertamento prognostico diverso da quello finalizzato a verificare il pericolo di reiterazione delle medesime condotte delittuose perché, in un’ottica di tutela più anticipata, ha come obbiettivo di prevenire, tramite le funzionali prescrizioni del regime detentivo speciale, già il solo collegamento operativo con il contesto di criminalità organizzata nel quale sono maturati i fatti di grave allarme sociale posti a fondamento della detenzione. Ai fini della proroga del regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., va, invece, apprezzato non tanto il concreto realizzarsi di momenti di collegamento esterno con il contesto di criminalità organizzata in ragione dell’elusione delle particolari disposizioni già predisposte per impedirli, quanto più propriamente la necessità di rendere ancora vigenti tali disposizioni, riscontrandosi – non necessariamente in considerazione di elementi sopraggiunti – la permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale (Sez. 1, n. 2660 del 09/10/2018, dep. 2019, Vinciguerra Rv. 274912; Sez. 1, n. 41731 del 15/11/2005, Stranieri, Rv. 232892; Sez. 1, n. 36302 del 21/09/2005, Grimaldi; Rv. 232114). Va, infatti, verificata, a mente dell’art. 41-bis comma 2, cit., la «capacità» di mantenere quei collegamenti a suo tempo riscontrati, «anche» tenendo conto di alcuni parametri elencati, in termini non esaustivi: il profilo criminale, la posizione rivestita all’interno dell’associazione, la perdurante operatività della stessa, la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, gli esiti del trattamento penitenziario, il tenore di vita dei familiari del sottoposto. Mentre si sottolinea che il mero decorso del tempo non costituisce da solo elemento sufficiente a escludere la «capacità» di cui sopra.

Si tracciano le finalità e i modi del controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali ex art. 41-bis: “Il perimetro e le modalità del controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali previsti dall’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., circoscritto nel testo attuale del successivo comma 2-sexies alla verifica della “sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento” sono state precisate da numerosi interventi della Corte Costituzionale. Con riferimento ai provvedimenti di applicazione del regime differenziato, il Giudice delle leggi ha affermato la loro piena sindacabilità, ad opera del giudice ordinario, e precisamente del Tribunale di sorveglianza adito col reclamo di cui all’art. 14-ter Ord pen., sia sotto il profilo dell’esistenza dei presupposti per tale applicazione e della congruità della relativa motivazione, sia sotto il profilo del rispetto – nel contenuto delle misure restrittive disposte – dei limiti del potere ministeriale: tanto quelli “esterni”, collegati cioè al divieto di incidere sul residuo di libertà personale spettante al detenuto, e dunque pure sugli aspetti dell’esecuzione che toccano, anche indirettamente, la qualità o la quantità della pena detentiva da scontare o i presupposti per l’applicazione delle misure così dette extramurali, quanto quelli “interni”, discendenti dal necessario collegamento funzionale fra le restrizioni concretamente disposte e le finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza cui devono essere rivolti i provvedimenti applicativi del regime differenziato, nonché dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dall’obbligo di non vanificare la finalità rieducativa della pena (sentenza n. 376 del 1997 che, espressamente richiama le precedenti pronunce n. 349 del 1993 e n. 351 del 1996; e più, di recente, n. 186 del 2018 e 97 del 2020)”.

Lo stesso si fa per i provvedimenti ministeriali di proroga: “Con riferimento ai provvedimenti di proroga del regime differenziato, la Consulta è pervenuta a conclusioni dello stesso tenore, esplicitamente avallando la giurisprudenza di legittimità formatasi dopo le modifiche apportate all’art. 41-bis Ord. pen dalla legge n. 279 del 2002 e dalla legge n. 94 del 2009. La Corte costituzionale, dapprima, nell’esaminare le conseguenze dell’introduzione al comma 2-bis cit. dell’inciso «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno» (oggi soppresso), ha escluso che nella verifica dei presupposti possa operare una inversione dell’onere della prova (nello stesso senso Sez. 1, n. 15283 del 30/03/2006, Orefice Rv. 234844; Sez. 1, n. 41316 del 23/09/2009, Zagaria, Rv. 245048), ribadendo che il provvedimento di proroga deve contenere una adeguata motivazione sugli specifici ed autonomi elementi da cui risulti la persistente capacità del condannato di tenere contatti con le organizzazioni criminali (nello stesso senso ex plurimis Sez. 1, n. 48396 del 06/10/2011, Lucchese, Rv. 251583) e che, conseguentemente, “in sede di controllo giurisdizionale spetterà al giudice verificare in concreto – anche alla luce delle circostanze eventualmente allegate dal detenuto – se gli elementi posti dall’amministrazione a fondamento del provvedimento di proroga siano sufficienti a dimostrare la permanenza delle eccezionali ragioni di ordine e sicurezza che, sole, legittimano l’adozione del regime speciale” (sentenza n. 417 del 2004). Successivamente, nel considerare infondata la censura relativa all’asserita cancellazione di ogni controllo di legalità, da parte del tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento ministeriale applicativo delle prescrizioni dettate dall’art. 41 -bis, comma 2 -quater, della legge n. 354 del 1975, nel testo modificato dalla legge n. 94 del 2009, con conseguente violazione degli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, ha precisato, sulla base di ricostruzione sistematica delle norme dell’ordinamento penitenziario, che le proroghe – a prescindere dalla soppressione, nella disciplina del reclamo di cui al comma 2-sexies cit. contro il decreto applicativo del regime speciale, del riferimento al controllo sulla congruità di contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza – al pari di tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti lesivi di posizioni giuridiche che, per la loro stretta inerenza alla persona umana, sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, continuano ad essere reclamabili con lo strumento generale previsto dall’art. 14-ter Ord. pen. davanti al giudice dei diritti e cioè al giudice ordinario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione (sentenza n. 190 del 2010). Il sindacato giurisdizionale attivato dai detenuti attraverso tale rimedio, proprio perché funzionale alla tutela di diritti soggettivi, si estende «non solo alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto di questo», con la conseguenza che «eventuali misure illegittime, lesive dei diritti del detenuto, dovranno perciò essere a questi fini disattese, secondo la regola generale per cui il giudice dei diritti applica i regolamenti e gli atti dell’amministrazione solo in quanto legittimi » (sentenza n. 351 del 1996, richiamata dalla n. 190 del 2010)”.

È chiaro allora, secondo il collegio di legittimità, che “il controllo da parte del Tribunale di sorveglianza, adito in sede di reclamo avverso i provvedimenti di proroga del regime differenziato, lungi dal costituire un sindacato di mera legittimità sulla congruità della motivazione, come tale limitato alla valutazione della correttezza, logica e giuridica, del provvedimento reclamato, è, invece, volto a verificare la sussistenza nel caso concreto dei presupposti normativi di cui all’art. 41-bis Ord. pen. mediante il ponderato apprezzamento dell’intero materiale probatorio raccolto, quindi non solo degli elementi fattuali posti a fondamento del decreto ministeriale ma anche di quelli, eventualmente, allegati dal reclamante o comunque emersi dall’istruttoria, al fine di riscontrarne, con congrue e pertinenti argomentazioni critiche sulle contrapposte prospettazioni, la idoneità dimostrativa della capacità del soggetto sottoposto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza”.

Sulla base di questa ricostruzione sistematica, la prima sezione penale, pur considerando erroneo e quindi non condivisibile “l’assunto del Tribunale di sorveglianza per il quale è “chiamato ad un controllo di legittimità in ordine al corretto esercizio del potere ministeriale””, ha ciò nonostante ritenuto che il rigetto del reclamo di PA contro il provvedimento di proroga fosse stato motivato adeguatamente e plausibilmente.

L’ordinanza impugnata, infatti, “ha congruamente illustrato la posizione di rilievo assunta dal ricorrente all’interno di Cosa Nostra (fin dagli anni 80 e per circa un ventennio ha fatto parte della struttura apicale di Cosa nostra denominata “Commissione provinciale”, quale rappresentante del mandamento di Santa Maria di Gesù o Guadagna, con un ruolo di primissimo piano, tanto da essere stato indicato da più collaboratori di giustizia come il “soggetto che seppe ricompattare il gruppo palermitano in contrapposizione alle famiglie corleonesi”) ed il suo contributo agli episodi criminosi, anche cruenti, di maggiore valenza strategica compiuti da detta organizzazione per un periodo di tempo lunghissimo, secondo quanto già giudizialmente accertato (ha riportato l’ergastolo per le strage di Capaci e via D’Amelio e per numerosi altri efferati omicidi). Ha, altrettanto correttamente valorizzato le più recenti acquisizioni investigative che hanno dimostrato la capacità operativa ed il persistente radicamento nel territorio del mandamento mafioso di cui l’A è stato a lungo esponente di vertice. Al riguardo è stato opportunamente sottolineato che le operazioni, denominate “Cupola 2.0” e “Cupola 2.0.2”, hanno disvelato la operatività negli anni 2018 e 2019 della Commissione provinciale, divenuta nuovamente un centro decisionale in grado di instaurare e mantenere rapporti di collaborazione tra le varie articolazioni della consorteria presenti nella città di Palermo, tra le quali spicca il gruppo di appartenenza dell’A, nell’attualità ancora in grado di controllare a tappeto le attività estorsive ai danni di imprenditori ed operatori commerciali nonché l’economia legale, mediante infiltrazioni ed il ricorso a prestanomi ed il successivo reimpiego di proventi nelle attività criminali”.

Occorre quindi riconoscere che “il Tribunale ha correttamente formulato il giudizio prognostico sul pericolo che il ricorrente, ove ammesso al regime penitenziario ordinario possa riallacciare, approfittando dell’allentamento dei controlli, i rapporti con l’organizzazione criminale di cui è stato a lungo un esponente di vertice, considerando recessivi gli elementi di segno contrario dedotti dalla difesa in sede di reclamo perché nient’affatto dimostrativi, se non di un serio distacco dal contesto mafioso, quanto meno della perdita del prestigio e della caratura criminale legata al ruolo di comando che, secondo l’esperienza derivante dalle vicende processuali, non è messa in crisi dalla detenzione carceraria. D’altra parte, l’ordinanza in verifica, lungi dal pretendere la collaborazione del detenuto, quale unico strumento per sottrarsi alla proroga del regime differenziato, del tutto plausibilmente non ha considerato indicativi di resipiscenza o comunque segnali chiari di allontanamento dai valori e dalla sub cultura mafiosa, condivisa per un lungo periodo di tempo quale modello comportamentale totalizzante cui ispirare ogni scelta di vita, anche se implicante il sistematico ricorso al delitto ed il disprezzo della vita umana””.

In conclusione: “I rilievi mossi con il ricorso […] ignorano i contenuti argomentativi come sopra rassegnati. Le obiezioni, invero, oltre a citare elementi in sé per nulla decisivi, come il protrarsi della carcerazione e l’assenza di un diretto coinvolgimento nelle più  recenti operazioni di polizia che hanno interessato il clan di riferimento, fanno riferimento, in termini generici, all’omessa valutazione di deduzioni difensive o non scrutinabili per la mancata allegazione, in osservanza del principio dell’autosufficienza del ricorso, delle fonti di prova asseritamente pretermesse, o già valutate recessive rispetto a quelle poste a fondamento del giudizio prognostico”.

Il ricorso è stato conseguentemente rigettato.

Qualche considerazione

Come si ricava con chiarezza dal testo della sentenza, riportato quasi integralmente, PA non è un detenuto qualunque.

È stato il leader di un importante mandamento mafioso di Palermo, componente influente della Commissione provinciale di Cosa nostra, partecipe a pieno titolo della sua strategia stragista e condannato in via definitiva all’ergastolo come concorrente delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Risulta inoltre dimostrato che il mandamento da lui guidato era ancora attivo e pericoloso in periodi recentissimi.

Queste circostanze di fatto portano con sé la necessità assoluta, strettamente connessa all’esigenza di difesa sociale, di cautela e rigore massimi nella valutazione della richiesta di revoca del regime carcerario differenziato.

Le difese avevano tuttavia dedotto altre e contrarie circostanze di fatto: PA è ininterrottamente detenuto da un quarto di secolo durante il quale è stato costantemente soggetto al regime ex art. 41-bis; in questo lungo periodo ha partecipato attivamente e positivamente alle attività trattamentali carcerarie, ha sempre tenuto un atteggiamento corretto, non gli è stata mai contestata alcuna infrazione di rilievo disciplinare, non è mai stato indagato in procedimenti penali diversi da quelli per i quali sta espiando la pena, non risulta alcun suo collegamento con le attività criminali attuali del mandamento di cui fu capo decenni orsono.

Questo complesso di circostanze, come si è visto, è stato ritenuto insufficiente per l’accoglimento del ricorso.

La visione del collegio di legittimità sembra dunque tarata sul passato, terribile e sciagurato, del ricorrente piuttosto che sul suo presente; sulle gesta sanguinarie di un trentenne piuttosto che sul comportamento cauto di un uomo ormai decisamente transitato nella terza età.

È una scelta legittima e non si vuole certo metterlo in dubbio: la valutazione dell’attualità della pericolosità sociale di un essere umano deve sicuramente tener conto della sua vita pregressa, soprattutto quando quella vita, come è certamente il caso di PA, sia stata così violenta e così distante dai canoni comportamentali dell’uomo qualunque da rendere quasi impossibile l’idea di un suo cambiamento in positivo.

Resta tuttavia, sarebbe ipocrita negarlo, un po’ di amaro in bocca per il duplice sciupio di una vita: feroce e distruttiva la sua prima parte, inutile e improduttiva, ancorché diversa, la seconda perché il tempo della diversità non vale granché.