
Nel 1987, due anni prima della sua morte, Leonardo Sciascia pubblicò per Adelphi il romanzo “Porte aperte”.
Il titolo riecheggia la retorica fascista della inscalfibile sicurezza che il regime assicurava ad ogni cittadino, al punto che ognuno poteva permettersi di lasciare aperta la porta di casa, sicuro che nessuno avrebbe osato oltrepassarla senza il suo permesso.
La storia è nota.
È ambientata nella seconda metà degli anni Trenta dello scorso secolo, in piena epoca fascista e nel periodo a cavallo, secondo la classificazione dello storico Renzo De Felice, tra il consolidamento del consenso per il regime e l’edificazione dello Stato totalitario.
È da tempo in vigore la pena di morte, reintrodotta nel 1926 con una delle cosiddette leggi fascistissime ed estesa a varie fattispecie di delitti comuni dal Codice Rocco del 1930.
Un impiegato licenziato uccide per vendetta la moglie, il collega che gli è subentrato e l’avvocato fascista che dirige l’ufficio di cui aveva fatto parte.
La prova è certa e l’assassino, che ha agito con premeditazione, è reo confesso.
I fatti sono di competenza della Corte di assise e la pena più probabile, e sicuramente più auspicata dal regime, è quella capitale.
Del collegio giudicante fa parte come giudice a latere un oscuro magistrato di provincia, un “piccolo giudice”, di fede illuminista.
Non si fa travolgere dalla retorica fascista, non crede alle condanne esemplari e, ciò che più conta nell’economia del romanzo, avversa ostinatamente la pena di morte considerandola incoerente alla necessità assoluta di rispettare la vita di ogni essere umano.
Per quel giudice la pena capitale è solo il segno di una stagione brutale e violenta, il frutto malato di spiriti animali altrettanto malati.
Spetta quindi a chi amministra la giustizia ignorare un precetto così irrazionale perché, come osservò Salvatore Satta nei Soliloqui e colloqui di un giurista, “La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale. Onde il processo si pone con una sua totale autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario di imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando trova, al di fuori di ogni contesto rivoluzionario, il suo «momento eterno»”.
È con questo spirito che il “piccolo giudice” si oppone al destino già segnato dell’imputato, resiste perfino alla personale mancanza di empatia nei confronti di costui e della sua condotta, e, forte della collaborazione di un giudice popolare di vedute affini alle sue, spinge la Corte di assise ad irrogare la pena dell’ergastolo al posto di quella capitale.
È un risultato effimero e glielo chiarisce con assoluta nettezza il procuratore del Regno: “Posso dirle con precisione quello che accadrà: la Cassazione annullerà la sua sentenza, assegnerà il processo all’Assise d’Appello di Agrigento, dove c’è un presidente che, mi duole dirlo, ha una certa affezione alla pena di morte. Ad Agrigento c’è anche un vecchio avvocato socialista, credo sia stato una volta deputato: buon avvocato e, inutile dirlo, segnato a dito come antifascista. Quest’avvocato assumerà certamente la difesa dell’imputato: che è quel che si vuole per dimostrare che c’è nel processo una contrapposizione tra il fascismo che cade inesorabile sui delitti efferati e l’antifascismo che squallidamente li difende; il che, bisogna metterlo in conto, avrà effetto secondario e retroattivo su di lei, sulla sua sentenza. In conclusione: ci sarà la sentenza di morte, l’imputato sarà fucilato”.
Ma, sebbene consapevole della certezza del ribaltamento e del prezzo che egli stesso dovrà pagare per non essersi piegato alla volontà del regime, per il giudice “è un principio di tale forza, quello contro la pena di morte, che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo […] L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere”.
Un piccolo giudice, una piccola storia, un grande senso dell’onore e della giustizia.

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