Delitto di dichiarazione infedele e ne bis in idem convenzionale

Fatto

FC è stato condannato in primo grado ad una pena detentiva e pene accessorie per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 D. Lgs. 74/2000 per avere omesso di indicare nella dichiarazione annuale redditi provenienti da attività illecita (distrazione di somme in danno di una società fallita) per un importo di circa 1,4 milioni di euro.

La Corte di appello ha confermato la prima decisione.

Il difensore dell’imputato ha presentato ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione

Il difensore del ricorrente ha anzitutto eccepito un vizio di motivazione riguardo al dolo specifico di evasione sul quale il giudice di secondo grado avrebbe speso argomentazioni illogiche e contraddittorie, particolarmente sotto il profilo della buona fede dell’imputato, non tenendo conto che il reddito che aveva omesso di dichiarare era stato sequestrato in sede penale e non era più nella sua disponibilità.

Ha poi dedotto la violazione dell’art. 649 c.p.p. e del divieto di bis in idem sancito dall’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). La decisione impugnata non avrebbe considerato adeguatamente infatti che nelle more del procedimento penale, a seguito di sentenza definitiva della competente Commissione tributaria regionale, l’Agenzia delle Entrate ha potuto recuperare a tassazione il reddito non dichiarato, le relative sanzioni e l’aggio dovuto all’agente della riscossione, per un importo complessivo di circa 1,5 milioni di euro.

Ha infine dedotto violazione di legge e vizio di motivazione riguardo al trattamento sanzionatorio e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

La decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è stato assegnato alla terza sezione penale che, in esito all’udienza del 15 ottobre 2021, lo ha deciso con la sentenza n. 2245/2022.

Il collegio ha dichiarato manifestamente infondato e quindi inammissibile il primo motivo, osservando che l’art. 14, comma 4, L. 537/1993, è costantemente interpretato “nel senso che il sequestro o la confisca escludono la tassazione dei proventi da reato solo se eseguiti nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile (tra le tante, Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 18575/2020)”. Non esisteva perciò alcun margine di incertezza sull’obbligo dichiarativo del contribuente sicché  la sua omissione equivaleva non ad un errore di fatto ma ad un errore inescusabile di diritto.

Ha invece accolto il secondo motivo, assorbendo in esso anche il terzo.

Si è servita a tal fine di un articolato percorso argomentativo così congegnato:

  • la presentazione di una dichiarazione annuale in cui è indicata un’imposta inferiore a quella dovuta costituisce un illecito amministrativo ai sensi del D. Lgs. n. 471/1997 (art. 1, comma 2,  per le imposte sul reddito e art. 5, comma 4, in materia IVA);
  • per la sua integrazione non occorre né il dolo specifico di evasione (richiesto invece per il delitto di dichiarazione infedele sanzionato dall’art. 4, D. Lgs. 74/2000) né che il contribuente indichi “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti”, essendo sufficiente che, anche solo per colpa, dichiari un reddito o un’imposta inferiori al dovuto e non rilevando l’entità dell’imposta evasa; ne deriva che le condotte poste a base dell’illecito amministrativo e del reato sono diverse e autonome;
  • questa constatazione non impedisce tuttavia di ritenere identico sul piano naturalistico il fatto sottostante ad entrambe e di prenderlo in considerazione ai fini del ne bis in idem convenzionale;
  • è rilevante in tal senso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU),  espressa in particolare dalla Grande Camera nella nota decisione Zolotukhin contro Russia del 10 febbraio 2009; i giudici europei chiarirono in quell’occasione che la CEDU deve essere interpretata ed applicata in modo da rendere pratici ed effettivi e non teorici o illusori i diritti in essa riconosciuti; precisarono pertanto che il termine “offence/infraction“usato nell’art. 4 del Protocollo n. 7 non giustifica interpretazioni restrittive; di conseguenza, deve essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi (§ 82), dovendosi intendere per fatto «l’insieme di circostanze di fatto concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale» (§84);
  • un’uguale prospettiva è seguita dalla giurisprudenza, anche a Sezioni unite, della Cassazione per la quale “l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona” (SU, sentenza n. 345655/2005 e molteplici decisioni successive;
  • un indirizzo, questo, confortato anche dalla sentenza n. 200/2016 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale; secondo il giudice delle leggi, chiarendo nell’occasione che “si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella sua astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea (…) solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato”;
  • si deve pertanto riconoscere che “la presentazione di dichiarazione infedele costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un’unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro”.

Posta questa premessa, cui è seguita un’accurata ricognizione degli ulteriori approdi interpretativi della Corte EDU riguardo ai parametri da osservare per evitare che il cosiddetto “doppio binario” punitivo comporti una violazione del ne bis in idem, il collegio di legittimità ha delineato i principi di diritto cui dovrà attenersi il giudice di rinvio:

  1. tra il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, e gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997, non sussiste il rapporto di specialità;
  2. ai fini del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”;
  3. non sussiste violazione del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale;
  4. in tali casi, deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata;
  5. ne consegue che, in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod. pen., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo;
  6. il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo”.

In applicazione dei suddetti principi la Corte di cassazione ha escluso che la condanna del ricorrente abbia violato il ne bis in idem di fonte convenzionale ma ha ritenuto che la decisione impugnata ha infranto il meccanismo di compensazione, “non avendo tenuto conto, nella commisurazione della pena, della sanzione amministrativa irrogata all’imputato per il medesimo fatto”.

La sentenza impugnata è sta conseguentemente confermata in punto di responsabilità e annullata con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio.