
Tra le questioni più scabrose esplorate nel giudizio di primo grado vi è stata quella che la Corte di assise di Palermo definì “L’accelerazione dell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino”.
Quella Corte, sulla base degli elementi conoscitivi esposti nel relativo capitolo (pagg. 1205 e ss.), ha ritenuto dimostrato su basi logiche che la decisione di assassinare il magistrato, pur presa da tempo da Riina, avesse subito un’improvvisa accelerazione, sebbene la sua pianificazione non fosse ancora completa e sebbene non potesse sfuggire al boss che la nuova strage avrebbe reso inevitabile una forte reazione statuale, riducendo al silenzio anche coloro che in buona fede avevano considerato il nuovo regime ex art. 41-bis (introdotto dal d.l. 306/1992 dopo la strage di Capaci) in contrasto con le garanzie proprie dell’ordinamento costituzionale.
La spiegazione dell’accelerazione è stata così testualmente argomentata: «non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Ciancimino costituisca un elemento di sicura novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quella manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi di quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo».
L’Assise di Palermo si è dunque convinta che, per una sorta di eterogenesi dei fini, l’attivismo degli ufficiali volto a fermare le stragi provocò l’eccidio di via D’Amelio.
Il che – si dovrebbe convenire – equivale ad affermare che le condotte degli ufficiali del ROS si inserirono in un progetto omicidiario già autonomamente deliberato da Salvatore Riina e ne provocarono il rafforzamento e l’immediata attuazione.
Un’affermazione, questa, fatta in assenza di un’accusa formale mossa agli interessati in uno qualunque dei procedimenti che hanno avuto direttamente ad oggetto la strage di via D’Amelio o che hanno esplorato o lambito la tesi della trattativa.
Fatta questa premessa, si può adesso dar conto delle conclusioni raggiunte sul punto dall’Assise di appello (pagg. 1610/1725 della motivazione).
Nell’impossibilità di approfondire analiticamente in un post come questo il complesso ragionamento seguito dalla Corte di secondo grado, ci si limiterà ad elencare in sintesi i suoi passaggi più significativi:
- non è affatto convincente la tesi del primo giudice che, ai fini della deliberazione della strage, esclude la rilevanza dell’indagine che il Dr. Borsellino sul filone mafia – appalti; è vero piuttosto il contrario: “se Cosa Nostra aveva motivo di temere conseguenze gravemente pregiudizievoli per i propri interessi da un’eventuale approfondimento dell’indagine mafia e appalti che conducesse ben oltre gli approdi del procedimento a carico di SIINO e gli altri 5 tra sodali e imprenditori collusi che erano stati arrestati e poi rinviati a giudizio per il reato di associazione mafiosa (essendo previsto per ottobre l’inizio del dibattimento), allora aveva altresì interesse a prevenire quel rischio: e quindi a stroncare sul nascere la possibilità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, attraverso l’annientamento del magistrato che forse più di ogni altro in quel momento avrebbe saputo mettere un patrimonio inestimabile di conoscenze e acquisizioni e capacità di analisi del fenomeno mafioso”;
- non è vero che l’attentato al Dr. Borsellino sia stato organizzato e deciso fulmineamente in risposta all’avvio della trattativa: “che la strage BORSELLINO possa essere stata decisa, organizzata e attuata nel volgere di pochi giorni e a seguito di un evento imprevisto quale la sollecitazione al dialogo pervenuta a RIINA proprio in quei giorni, attraverso il canale CIANCIMINO-CINA’, e proveniente da quelli che lo stesso RIINA aveva motivo di credere fossero emissari di organi di governo, o rappresentanti dello Stato appare frutto di una chiara forzatura di tutti i dati disponibili”;
- non è in alcun modo provato che l’inizio della trattativa sia avvenuto prima dell’attentato al Dr. Borsellino: “ciò che si può dare per provato con certezza è solo che (effettivamente) RIINA venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto [quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage (quella di Capaci)]. E’ dunque possibile, ma solo possibile, che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio, ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi siciliane”;
- diventa a questo punto insostenibile la logica dei primi giudici: “Disarmante è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del R.O.S. con Vito CIANCIMINO (per i contrasti tra le rispettive dichiarazioni e ‹‹anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6 giugno 1998››), perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti […] Ciò che conta, in questa nuova – e inattesa – prospettiva, è che risulti provato – ma non lo è affatto – che RIINA venne informato da CIANCIMINO fin dal primo approccio che questi aveva avuto con il Capitano DE DONNO, prima ancora che il Col. MORI avesse modo di esplicitare personalmente a CIANCIMINO la sua proposta di dialogo: come se RIINA avesse avuto la capacità divinatoria di intuire deve andasse a parare il primo approccio di DE DONNO a CIANCIMINO, o quest’ultimo lo avesse intuito da sé, senza bisogno di averne esplicita conferma da MORI. E che CIANCIMINO avesse informato subito RIINA, fin dal primo approccio di DE DONNO, la Corte d’Assise di primo grado pretende di inferirlo da una sola frase, con la quale Vito CIANCIMINO enuncia di avere ricevuto, dopo il ritorno di fiamma dei referenti mafiosi, una piena delega a trattare con i carabinieri, oltre che con il Capitano DE DONNO”;
- più in generale, “alla luce delle considerazioni che precedono, è tempo di chiedersi se non sia sbagliato interrogarsi sulle cause della (presunta) accelerazione della strage di via D’Amelio; l’errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda. Ed invero, quando si afferma che vi fu un’accelerazione, o addirittura una repentina accelerazione dell’iter esecutivo, per cui ci si interroga poi sulle cause che l’avrebbero determinata (e si formulano le ipotesi più disparate), si sottintende che, se non fosse avvenuto qualcosa che modificò i piani di RIINA, all’eliminazione del dott. BORSELLINO, la cui morte era stata da tempo decretata, si sarebbe giunti ugualmente, o almeno Cosa Nostra ci avrebbe provato, ma non a distanza di così poco tempo dalla strage di Capaci. E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di “soli” 57 giorni – poiché tanti ne passarono tra i due eventi delittuosi – sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa Nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci. Il rischio è che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima ben inteso ma che può inquinare il ragionamento: dopo Capaci, con tutta la sua terribile carica distruttiva, nessuno di buon senso avrebbe mai voluto assistere a scene di distruzione e di morte come quelle ripetute in via D’Amelio ed allora il tempo tra questi due eventi sembra restringersi, quasi a fondere questi eventi, ma solo perché in effetti neanche uno di essi è accettabile; il tutto, per di più, in una micidiale combinazione, uno-due, in danno dei magistrati che impersonificavano la lotta a Cosa Nostra trucidati con esplosioni eclatanti e devastatrici. E si dà per scontato – senza peritarsi di indicare le fonti che lo provino – che l’offensiva stragista, posto che la strage di Capaci segnava il punto più alto raggiunto da una strategia più complessiva di sfida allo Stato e di attacco frontale alle istituzioni, ma non la sua fine, avesse una sua tabella di marcia; e che questa sinistra tabella di marcia non contemplasse che due mesi dopo la strage di Capaci si mettesse mano ad un altro delitto, altrettanto eclatante. E se è vero che la strage di Capaci era stato un vero e proprio atto di guerra oltre che di sfida allo Stato, ma non aveva concluso l’offensiva scatenata da RIINA che semmai con quell’attentato aveva compiuto un salto di qualità, elevando a livelli mai visti in precedenza lo scontro con le istituzioni, allora, in una logica di tipo militare, qual è quella che si conviene ad una vera e propria guerra, era più che plausibile che gli attentati ai danni di soggetti già individuati come obbiettivi da colpire si susseguissero nel più breve tempo possibile, se v’era la capacità di realizzarli, senza dare respiro al “nemico”, e, in questo caso, senza dare allo Stato il tempo di riorganizzarsi, di serrare le fila e apprestare una reazione adeguata. Quanto fragile sia l’argomento della brevità dell’intervallo temporale tra le due stragi siciliane lo dimostra del resto il lugubre calendario degli eventi delittuosi che cadenzano la guerra scatenata dai corleonesi allo Stato […] Cosa Nostra nell’estate del ‘92 non giocava in difesa, ma in attacco, e l’obbiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia o dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; ma l’obbiettivo finale era di costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra e quindi l’unica via era quella di fare concessioni o almeno trattare con i vertici mafiosi un allentamento delle misure repressive. Perché ciò che i fautori della tesi dell’accelerazione dimenticano è che se RIINA si era determinato a compiere un delitto eclatante come la strage di Capaci era anche perché la situazione si era già fatta tanto insostenibile, per gli interessi mafiosi, a causa delle modifiche normative già varate e andate a regime nel corso del trascorso biennio, da rendere più che sopportabile il rischio che ad una nuova strage potesse fare seguito una reazione vibrante dello Stato sul piano dell’intensificazione dell’azione repressiva: nella convinzione, tuttavia che un Governo e una classe politica tutt’altro che solidi in un contesto segnato dalla crisi irreversibile cui erano avviati i partiti della debole maggioranza quadripartita che sorreggeva il primo, sotto i colpi dell’inchiesta “Mani Pulite” (mentre lo stesso governo era alle prese con altre emergenze, oltre a quella criminale, come la vertenza sul costo del lavoro nel quadro di una crisi economica e finanziaria da fare tremare le vene ai polsi, e aggravata dalla necessità di rispettare i parametri contenimento del deficit imposti dal trattato di Maastricht, che era stato siglato pochi mesi prima, e di mettere al più presto mano a riforme di struttura come quelle di previdenza e sanità, oltre alla privatizzazione degli Enti delle Partecipazioni Statali e degli altri grandi Enti Pubblici economici) non avrebbero retto a lungo di fronte alla minaccia di ulteriori spargimenti di sangue e alla conclamata incapacità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità dei cittadini”;
- a tutto questo va aggiunto che Cosa nostra aveva la necessità di reagire ad un trend normativo e giudiziario divenuto insostenibile per gli interessi mafiosi; ad esso “era andato ad aggiungersi l’esito disastroso del maxi processo che aveva per così dire sugellato la rottura definitiva del tacito patto di non belligeranza o di pacifica coabitazione nei rapporti tra le organizzazioni mafiose e la Politica, stroncando qualsiasi residua speranza di poter beneficiare di coperture e connivenze che per anni avevano assicurato ai mafiosi l’impunità per i crimini commessi, o la possibilità di godere di dorate latitanze”; così come occorre considerare che “la strage di Capaci, in quanto vero e proprio atto di guerra con evidenti valenze terroristiche, aveva segnato un punto di non ritorno di quell’offensiva. Infatti, una volta imboccata la strada dell’attacco armato di stampo terroristico per costringere lo Stato – che si presumeva ormai votato a incalzare le organizzazioni mafiosi con incisive misure normative e organizzative, ma pur sempre incapace di sopportare un costo di vite umane che ne avrebbe decretato il fallimento nella principale delle sue funzioni, e cioè quella di assicurare il rispetto dell’ordine pubblico e tutelare l’incolumità dei cittadini – a venire a più miti consigli, non c’era alternativa alla scelta di proseguire su quella strada, fino a quando lo Stato non avesse ceduto o mostrato segni di cedimento”;
- bisogna infine assumere come fatto acquisito che “all’esito dei tanti processi celebrati e definiti ormai con sentenze divenute irrevocabili, che a saldare la strage di via D’Amelio a quella di Capaci in un disegno criminoso unitario non fu solo la finalità ritorsiva – e cioè la vendetta da tempo covata contro due nemici “storici” di Cosa Nostra – essendo i due eventi delittuosi accomunati anche dall’ulteriore finalità di ricatto allo Stato. Nel senso che si voleva esercitare sul Governo e sulla classe politica, mediante reiterate esplosioni di inaudita violenza, una pressione tale da costringere lo Stato a venire a più miti consigli, e a recedere da quella linea dura a cui Cosa Nostra avrebbe opposto reazioni sempre più vilente e sanguinose, dimostrando di averne la capacità di metterle in atto […] Ora, se ciò è vero, come ci dicono tanti processi e relative sentenze definitive, e lo confermano le prove testimoniali raccolte anche nel presente processo, allora una nuova manifestazione di terrificante potenza che facesse seguito nel più breve tempo possibile a quella esibita con la strage di Capaci, colpendo al pari di questa e con modalità altrettanto eclatanti un altro simbolo vivente della lotta dello Stato a Cosa Nostra, non solo era funzionale a quella strategia, ma ne costituiva il più naturale, logico e quindi anche prevedibile sbocco;
- e dunque “è di tutta evidenza che Paolo BORSELLINO non era solo uno dei tanti obbiettivi da colpire, ma fu fin dall’inizio dell’offensiva stragista che era stata varata nel corso delle riunioni della Commissione provinciale e della Commissione Regionale di Cosa Nostra tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92, uno degli obbiettivi principali di quella campagna di morte e di terrore. Ed è altrettanto evidente che, dopo l’eliminazione del giudice FALCONE, il dott. BORSELLINO era divenuto l’obbiettivo primario, anche, ma non soltanto, per il valore simbolico associato alla sua figura; ed era lui stesso il primo, come s’è visto ad averne consapevolezza. Sicché l’assunto secondo cui un intervallo di 57 giorni era troppo breve per non tradire qualche evento sopravvenuto medio tempore che imponesse di affrettare i tempi, potrebbe essere rovesciato nel suo esatto contrario: era un intervallo di tempo anche troppo lungo, se è vero, come pure è provato, che Cosa Nostra aveva la capacità e i mezzi per sferrare un secondo micidiale colpo contro colui che, nell’immaginario mafioso, ne era divenuto, dopo la morte di FALCONE, “il nemico numero uno”;
- si impone a questo punto la conclusione che segue: “ E’ possibile, ma non è provato, che RIINA sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali ad allacciare un dialogo per fare l’escalation di violenza mafiosa. Ma anche se così fosse, l’operazione BORSELLINO era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatto sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a BORSELLINO, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a RIINA, i suoi piani. Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, non del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa Nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello Stato di opporsi alle sue pretese. E’ però possibile, ed anzi assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che RIINA sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del R.O.S. e della sollecitazione rivolta attraverso CIANCIMINO soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa. Ebbene, anche in tale evenienza, egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello Stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia stragista “pagava”, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo Stato si piegasse alle richieste di Cosa Nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza. Sotto questo profilo il nucleo essenziale del costrutto accusatorio esce validato dalla verifica probatoria: ma senza bisogno di evocare l’incidenza della sollecitazione al dialogo su una presunta accelerazione dell’iter esecutivo, accelerazione che non vi fu, o almeno non vi fu nell’accezione in cui la intende anche la sentenza qui appellata, nel solco di un refrain comune alle sentenze che hanno definito quasi tutti i processi celebrati sulle due stragi siciliane. Se accelerazione vi fu, essa si verificò soltanto sul piano strettamente operativo e con riferimento alla sequenza finale della fase esecutiva, non appena si ebbe conferma che il dott. BORSELLINO quella domenica si sarebbe recato in via D’Amelio per fare visita alla madre, come in effetti soleva fare nei fine settimana (e come gli uomini di Cosa Nostra cui era stato affidato il compito di organizzare e realizzare l’attentato sapevano, grazie alle attività di pedinamento e appostamento dispiegate nelle settimane precedenti), essendosi profilata, giusta quella conferma, l’opportunità di colpire nel luogo più idoneo tra quelli che erano stati studiati”.
Finisce così con queste parole una suggestione di lunga data che ha turbato nel profondo le coscienze dei cittadini: quella che lo Stato, in questo caso impersonato dagli ufficiali di un corpo di élite dell’Arma dei Carabinieri, sia stato corresponsabile del martirio di un eroe della Repubblica.
C’è da esserne contenti.

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.