
Il 23 settembre 2021 la seconda sezione della Corte di assise di appello di Palermo ha posto fine alla fase di merito del giudizio con rito ordinario nei confronti di Leoluca Bagarella ed altri per i fatti che la sintesi mediatica ha denominato trattativa Stato – mafia (per un approfondito resoconto dell’iter giudiziario fino al primo grado si rinvia a V. Giglio, La trattativa Stato – mafia, Diritto Penale e Uomo, 8 aprile 2020, a questo link). Il dispositivo, scaricato dal sito web della rivista Giurisprudenza Penale che lo ha meritoriamente messo a disposizione dei lettori, è allegato in calce al post.
Questo l’esito del giudizio d’appello: i tre ufficiali dell’Arma dei Carabinieri Giuseppe De Donno, Antonio Subranni e Mario Mori sono stati assolti dal reato (capo A della rubrica) di minaccia pluriaggravata a un corpo politico dello Stato (nella fattispecie, in particolare, il Governo della Repubblica) perché il fatto non costituisce reato; Marcello Dell’Utri è stato assolto dal medesimo reato, riqualificato per la parte che lo riguarda nella forma tentata, per non avere commesso il fatto; Leoluca Biagio Bagarella ha ottenuto un ricalcolo della pena complessivamente inflittagli, adesso fissata in 27 anni di reclusione a fronte dei 28 anni irrogati in primo grado, essendo stato dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per intervenuta prescrizione per il medesimo reato riqualificato contestato al Dell’Utri; è stato rigettato l’appello di Antonino Cinà e resta quindi confermata la pena a 12 anni di reclusione inflittagli in primo grado in quanto giudicato responsabile del reato di cui al capo A della rubrica. Va ricordato che tra gli imputati appellanti era inizialmente compreso anche Massimo Ciancimino, condannato dal primo giudice a otto anni di reclusione per il delitto di calunnia. A luglio dello scorso anno, tuttavia, i giudici dell’assise d’appello hanno dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per prescrizione, precisando che la causa estintiva si era verificata il 2 aprile 2018, dunque mentre era ancora in corso il giudizio di primo grado.
Il 6 agosto 2022, a distanza di quasi un anno dalla lettura del dispositivo, è stata pubblicata la motivazione della sentenza.
Come già avvenuto in primo grado, si tratta di un documento particolarmente corposo (poco meno di 3.000 pagine) e minuzioso nella descrizione della sentenza di primo grado, di ognuno degli atti di impugnazione con i relativi motivi e delle valutazioni che hanno indotto l’assise di appello alla sua decisione. La consultazione della motivazione è agevolata da un indice. Sia la motivazione che l’indice, anch’essi scaricati dal sito di Giurisprudenza Penale, sono allegati in calce al post.
Va ricordato in premessa che la procura della Repubblica di Palermo aveva contestato la fattispecie, prevista dall’art. 338 cod. pen., di concorso in minaccia continuata e pluriaggravata a un corpo politico (individuato nel Governo) allo scopo di impedirne o turbarne l’attività.
La tesi sottostante all’imputazione può essere sintetizzata nei termini che seguono.
I boss mafiosi Riina, Provenzano e Cinà, considerando di potere trarre consistenti vantaggi dalla forte apprensione pubblica conseguente alla stagione stragista dei primi anni Novanta, da loro stessi determinata, avrebbero deciso di intavolare una trattativa con le istituzioni finalizzata al raggiungimento di un’intesa così concepita: Cosa nostra avrebbe interrotto le stragi ma in cambio lo Stato, e particolarmente l’Esecutivo, avrebbe adottato un pacchetto di misure con effetti tali da allentare sensibilmente la pressione sugli “uomini d’onore” siciliani; ne facevano parte tra l’altro la revisione della legislazione di contrasto alla criminalità organizzata mafiosa, l’abbandono o il depotenziamento dei rigorosi criteri valutativi della prova che avevano consentito la miriade di condanne nel cosiddetto maxiprocesso palermitano, la dismissione del regime penitenziario restrittivo consentito dall’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario. Dal lato istituzionale, le attività per la realizzazione del progetto di trattativa sarebbero state materialmente condotte da Subranni, Mori e De Donno, su incarico di esponenti governativi. Un ruolo centrale in questo senso sarebbe stato esercitato da Calogero Mannino che avrebbe indotto esponenti dei corpi info-investigativi ad aprire la trattativa e avrebbe fatto pressioni per allentare l’applicazione del carcere duro ai mafiosi. L’attivismo di Mannino e il suo specifico interesse alla trattativa sarebbero stati legati alla sua particolare condizione di vittima designata, assieme a numerosi altri bersagli, del programma stragista. Nella fase iniziale, immediatamente successiva alla strage di Capaci, i tre ufficiali avrebbero contattato Vito Ciancimino perché facesse da tramite con i capi di Cosa nostra. Realizzato il contatto, la trattativa sarebbe entrata nel vivo e avrebbe implicato impegni per ambo le parti e tra questi la rinuncia degli apparati di polizia alle ricerche e alla cattura del capomafia latitante Bernardo Provenzano. L’interlocuzione Stato-mafia sarebbe durata nel tempo tanto da essere ancora in corso allorché, iniziata la XII legislatura, Silvio Berlusconi formò il suo primo Governo. In questa fase avrebbero avuto un ruolo importante Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca i quali, servendosi di Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri come intermediari, avrebbero trasmesso al premier le stesse richieste di cui si è detto in precedenza. Dell’Utri, in particolare, ampliò il suo ruolo di mediatore dopo l’assassinio di Salvo Lima e l’arresto di Ciancimino e Riina. Questo complesso di condotte avrebbe avuto un effetto pernicioso: il riconoscimento a Cosa nostra del ruolo di interlocutore dello Stato, implicando la presa d’atto istituzionale dell’efficacia della campagna stragista, si sarebbe infatti tradotto in un indebolimento delle istituzioni e in una compromissione del libero esercizio delle loro prerogative, così realizzandosi gli elementi costitutivi della contestata fattispecie di violenza o minaccia a un corpo politico.
Come era facile prevedere, la notizia del deposito della motivazione è stata ampiamente diffusa dai mass-media e ad essa si sono affiancati numerosi commenti e analisi di vario segno che tuttavia possono essere ridotti a due opinioni essenziali: quella di chi ha ritenuto definitivamente sconfessata la proposizione accusatoria centrale e tratto quindi la conseguenza dell’assenza di cedimenti dello Stato nella guerra alla mafia; e quella di chi, al contrario, ha letto nella motivazione la conferma della tesi d’accusa, dolendosi della sua mancata traduzione in affermazioni di responsabilità e condanne.
Non c’è da sorprendersi: l’esistenza e la diffusione di visioni inconciliabili tra loro ha caratterizzato l’esperienza giudiziaria della trattativa fin dal suo sorgere ed è decisamente insensibile alla sentenze, anche definitive, emesse da vari organi giudiziari.
Non interessa qui schierarsi da uno dei due lati. Si pensa invece che serva avere una conoscenza corretta del giudizio.
Nei prossimi giorni questo blog pubblicherà quindi una serie di approfondimenti tematici sulla motivazione della sentenza di secondo grado, nella speranza di contribuire ad opinioni consapevoli.
Arrivederci al prossimo appuntamento.

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