
La Federazione Russa ha chiesto all’Italia l’estradizione processuale di un cittadino greco nei cui confronti è stato emesso un ordine di cattura da un tribunale russo.
La Corte d’appello competente ha riconosciuto esistenti le condizioni per concedere l’estradizione.
Il difensore dell’estradando ha fatto ricorso per cassazione.
La Corte di cassazione lo ha integralmente accolto, annullando con rinvio la decisione impugnata con una sentenza che offre molteplici spunti di interesse.
La prima violazione accertata dal collegio di legittimità è l’omessa informazione della Repubblica Ellenica circa la pendenza di una richiesta estradizionale nei confronti di un suo cittadino. Quest’obbligo, conseguente al principio di leale cooperazione previsto dall’art. 4, par. 3, comma 1, TUE, gravava sull’Italia ma non è stato adempiuto.
La procedura estradizionale comporta poi (art. 698, comma 1, cod. proc. pen.) l’ulteriore obbligo di verificare se nello Stato richiedente esistano un rischio generale di trattamenti disumani e degradanti in danno dei detenuti e un analogo rischio individuale per l’estradando.
La Corte territoriale, pur avendo chiesto e ottenuto informazioni sul punto alle autorità competenti della Federazione russa, ha escluso entrambi i rischi, non riscontrando situazioni diffuse di violazione dei diritti fondamentali in quello Stato e riconoscendo che nelle carceri della Repubblica dei Komi, ove sarebbe stato destinato l’estradando erano rispettati tutti gli standard necessari per l’osservanza delle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della CEDU.
È stato agevole per la Corte di cassazione replicare che la verifica non può essere fondata sulle attestazioni dello Stato richiedente o sul semplice fatto che esso abbia aderito a trattati internazionali che garantiscono in via di principio diritti umani. Al contrario, la verifica deve basarsi su elementi oggettivi, attendibili e aggiornati, quali possono essere, tra gli altri, sentenze e documenti emessi da istituzioni europee ed internazionali. La Corte d’appello, violando questo parametro, non ha preso in considerazione la documentazione difensiva che comprendeva tra l’altro recenti decisioni di condanna della Federazione Russa da parte della Corte europea dei diritti umani per pratiche illegittime nel trattamento dei detenuti. Così come ha ignorato, sebbene prodotti dalla difesa, inchieste giornalistiche che hanno documentato torture e violenze nelle carceri russe e gli esiti di una recente visita ispettiva effettuata (dal 20 settembre al 4 ottobre 2021) in numerosi centri penitenziari russi dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa [Council of Europe’s Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT)]. Così come non ha tenuto in alcun conto i documenti e rapporti di autorevoli organizzazioni non governative come Amnesty International e Human Rights Watch che hanno messo in luce il carattere endemico delle torture e dei maltrattamenti inflitti ai detenuti nei penitenziari russi e la sostanziale assenza di qualsiasi forma di repressione statuale verso questi illeciti comportamenti.
Ha osservato infine il collegio di legittimità che, dopo il conflitto bellico causato dall’invasione russa del territorio ucraino, la Federazione Russa ha informato il Segretario Generale del Consiglio d’Europa della propria volontà di recedere dal relativo trattato internazionale sicché ha cessato di esserne Stato – parte a partire dal 16 marzo 2022. La stessa Federazione ha inoltre deciso di cessare di essere Alta Parte Contraente della Convenzione europea dei diritti umani a partire dal 16 settembre 2022. Questi eventi, non ancora manifestatisi al momento dell’emissione della decisione della Corte d’appello, dovranno essere comunque presi in considerazione.
La conseguenza, a questo punto inevitabile, è stata l’annullamento con rinvio della decisione della Corte d’appello.
La sentenza della sesta sezione penale merita ampia condivisione, fondata com’è su argomentazioni impeccabili.
Considerazioni di segno opposto vanno fatte per la decisione della Corte d’appello.
Se la Cassazione non l’avesse stoppata, quel giudice stava di fatto mandando al macello un essere umano, permettendo la sua carcerazione in uno Stato in cui i diritti dei detenuti valgono quanto la carta straccia.
Lo stava facendo in palese violazione di norme interne e sovranazionali applicabili nel caso di specie.
Lo stava facendo sulla base di una valutazione fondata esclusivamente sulle rassicurazioni dello Stato richiedente.
Lo stava facendo ignorando dati che sono nella consapevolezza pressoché comune.
Un pessimo spettacolo, che altro si può dire?

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