
Nel 2012 la Corte di cassazione giudicò il ricorso di Marcello Dell’Utri e del PG di Palermo contro la sentenza della Corte di appello palermitana che aveva riconosciuto l’imputato responsabile di concorso esterno (in associazione a delinquere fino al 28 settembre 1982 e in associazione mafiosa da quella data in avanti.
Il collegio, dopo aver ritenuto dimostrata la responsabilità dell’imputato a titolo di concorso esterno in associazione a delinquere fino al 1977 (con conseguente formazione del giudicato interno sul punto), dichiarò inammissibile il ricorso del PG e annullò con rinvio la sentenza impugnata, demandando al giudice del nuovo giudizio di verificare se a Dell’Utri potesse addebitarsi il concorso esterno per il periodo tra il 1978 e il 1982 (periodo in cui non aveva lavorato per il gruppo FININVEST) e se lo stesso reato potesse ravvisarsi nel periodo successivo sotto il profilo soggettivo.
Non è tuttavia il contenuto della decisione di legittimità che interessa osservare quanto piuttosto la requisitoria scritta del PG di udienza, Dr. Iacoviello.
È un atto confezionato in modo insolito, certamente assai distante dalla prassi abituale.
È un flusso di pensieri – rigorosamente formulati, s’intende – ma insieme una rivendicazione di libertà dalle tante costrizioni che un giudizio del genere (nel quale ogni elemento, l’imputato e il suo referente politico, un’imputazione così simbolica e identitaria, l’esigenza della lotta al crimine organizzato mafioso, ha un’elevata capacità di catalizzazione mediatica) potrebbe indurre in coscienze meno disposte ad abbandonare i rassicuranti percorsi già tracciati.
Il PG si scrollò di dosso ognuna di quelle costrizioni e disse ciò che pensava.
Parlò di molte cose.
Di un’imputazione che non c’era per quanto la si cercasse, costruita come elencazione di elementi acquisiti nelle indagini e non come testo linguistico.
Dell’alterazione insanabile che una simile tecnica aveva implicato al giudizio, impedendo ai decisori di seguire l’ordine fisiologico di ogni sentenza (imputazione>motivazione>decisione) e costringendoli a creare essi stessi l’imputazione come conseguenza della motivazione la quale, a sua volta, non essendo nutrita di fatti sintetizzati in un’imputazione, diventava liquida e vanamente assertiva (e quindi motivazione>imputazione>decisione o addirittura, in ipotesi estreme, decisione>motivazione>imputazione).
Di un concorrente esterno accusato di essere tale per avere agevolato l’estorsione al suo dominus ma non chiamato a rispondere della stessa estorsione, così determinandosi un’accusa indeterminata e un deficit di tipizzazione della condotta contestata.
Di una fattispecie, quella del concorso esterno in associazione mafiosa, “intrinsecamente vaga” e dalla “tipicità sfuggente”, “di fatto una creazione giurisprudenziale”, “un reato autonomo creato dalla giurisprudenza. Che prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali. In cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più”, che proprio per questo non poteva tollerare l’ulteriore compromissione derivante da una contestazione in fatto.
Delle tante e confliggenti e spesso non riscontrate interpretazioni offerte dalla sentenza impugnata circa il contributo concreto asseritamente offerto dall’imputato.
Dell’insostenibilità della configurazione del concorso come reato permanente.
Della conseguente necessità di annullare con rinvio la sentenza impugnata per vizio di motivazione.
Tutto questo si poté leggere nella requisitoria del PG d’udienza che, del resto, non era nuovo a épater le bourgeois (è dello stesso Dr. Iacoviello la frase “ora in questo Paese non sappiamo se non se ne può più della mafia o dei processi di mafia”. La sua tesi non ebbe fortuna ma resta il ricordo di una insolita libertà intellettuale.

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