Processo Eni Shell: PG rinuncia all’appello della Procura; definitiva l’assoluzione di Claudio Descalzi, Paolo Scaroni e di tutti gli altri coimputati

Che il processo cosiddetto Eni-Shell o Eni-Nigeria fosse un’esperienza straordinaria sotto ogni aspetto era stato evidente fin da subito.

Imputati dallo standing particolarmente elevato (manager di vertice delle due multinazionali petrolifere, esponenti dell’establishment nigeriano, intermediari in contatto con importanti istituti di credito), intervento al loro fianco del Gotha dell’avvocatura penalistica nazionale, particolarità dell’imputazione contestata (un’ipotesi di corruzione transnazionale che avrebbe comportato il pagamento di un importo superiore a un miliardo di dollari, cui era stata affiancata l’azione di responsabilità ai sensi del decreto 231/2001 nei confronti delle due compagnie),  ampiezza dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di primo grado, emersione di ipotizzate condotte extraprocessuali volte ad alterare in varie forme l’esito del giudizio, scontri via via più accesi tra le parti processuali, forte seguito mediatico: ognuno di questi elementi ha contributo a rendere il processo milanese un evento di interesse nazionale e non solo.

Il 17 marzo 2021, a distanza di tre anni dall’inizio, il tribunale di Milano ha assolto tutti gli imputati per insussistenza del fatto, frantumando un’inchiesta nella quale la procura meneghina aveva investito tempo, risorse e credibilità.

Chi desiderasse un’informazione più completa sull’andamento del giudizio e sulle motivazioni della sentenza assolutoria può trovarla qui.

Come era ovvio attendersi, la sentenza è stata impugnata dai PM che avevano promosso l’accusa, con  un atto d’appello quantomai puntiglioso e critico.

In questi giorni, a distanza di quasi un anno e mezzo dalla conclusione del primo grado di giudizio e mentre è in corso la fase d’appello, si manifesta un ulteriore evento di portata straordinaria: la PG Celeste Gravina ha rinunciato all’appello dei colleghi pubblici ministeri (per la notizia si può consultare questo link).

Chiunque abbia dimestichezza con le prassi giudiziarie sa che si tratta di un comportamento particolarmente inusuale poiché lo standard più frequente è quello di non mollare l’accusa e di perseguirla finché c’è un briciolo di possibilità, anche a dispetto di ogni previsione razionale.

Non così, non in questo caso.

Ma c’è di più.

La PG non solo ha abbandonato l’accusa ma ha colto l’occasione per formulare giudizi estremamente severi sull’operato dei PM di primo grado e stigmatizzare gli effetti negativi che ha prodotto.

Vediamo un po’.

Quanto all’operato della procura di Milano: assenza di prove di fatti penalmente rilevanti, accusa fondata su chiacchiere e opinioni generiche, motivi di appello incongrui, insufficienti e fuori del binario della legalità, deliberata noncuranza verso sentenze definitive che hanno smentito l’accusa ed altro ancora.

Quanto agli effetti: tredici imputati tenuti sulla graticola e la più grande compagnia nazionale tenuta in ostaggio.

Quanto ai motivi ispiratori dell’indagine: pretesa di sostituire la visione della procura a quella di organismi democraticamente eletti; incapacità di lettura dell’operato di due grandi compagnie multinazionali, spacciando per neo-colonialismo iniziative imprenditoriali che hanno creato ricchezza per la Nigeria e i nigeriani.

Sicché, ha affermato la PG, dopo sette anni di via crucis è ora di restituire agli imputati la libertà dal processo e l’onore e la reputazione che gli sono stati sottratti.

Dovrebbe essere più chiaro adesso perché questa vicenda è straordinaria.

Ciò che la rende tale non è la posizione concettuale della PG: ognuno dei principi sui quali ha fondato le sue valutazioni e le sue richieste è pienamente condivisibile e trova il suo fondamento nelle più alte fonti normative nazionali e sovranazionali.

È però nella comune consapevolezza che il diritto a non subire accuse penali se non vi sono elementi sufficienti a sostenerle non è, ad usare un eufemismo, tra quelli più valorizzati in questa ormai lunga stagione normativa e giudiziaria.

È ugualmente noto che l’adesione dell’accusa pubblica alle tesi difensive (e prima ancora il suo impegno a investigare anche a favore degli accusati) è merce rarissima.

E, quanto al tempo che passa e ai suoi effetti negativi su coloro che attendono giustizia come accusati o vittime, la tendenza innegabile è quella di considerarlo come una variabile indipendente e irrilevante. Anzi, la realtà giudiziaria offre non pochi esempi di accanimento giudiziario,  intendendo per tale la tendenza a replicare più e più volte la medesima accusa, a dispetto di decisioni che la smentiscono.

E allora?

Allora bene ma non benissimo.

Perché lo slogan “La legge è uguale per tutti” indurrebbe a pensare che la pena di un’accusa ingiustificata dovrebbe essere evitata per tutti e ogni volta che questo accade si deve essere contenti.

Ma il motto orwelliano “Tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più uguali degli altri” ci spinge al contrario a pensare che, per essere davvero uguale, devi avere soldi, potere, buoni avvocati e la capacità di resistere a pressioni che schiaccerebbero l’uomo comune.