Un nome, un destino? Ma anche no (di Vincenzo Giglio)

Ho scritto questa short story per candidarmi al concorso letterario bandito da “Il Dubbio”. Va da sé che non ho vinto e non ho neanche avuto, chessò, una menzione speciale della giuria o un minimo cenno di gradimento. Giustamente, mi sarei cestinato anch’io, ma siccome qui non ci sono premi da vincere, mi sento libero di proporre la mia storiella a chi abbia tempo da sprecare.

Mio padre faceva il bidello ed era un uomo contemplativo.
Due caratteristiche potenzialmente in conflitto, in fondo da un bidello ci si aspetta che faccia cose più che contemplare.
Lui però non si faceva travolgere, neanche lo avvertiva il conflitto.
Puliva quanto bastava, era ossequioso il giusto con i superiori e intanto seguiva la sua passione, l’unica che aveva.
Quali che fossero le consegne del giorno, trovava sempre il modo di ascoltare le lezioni dei professori di filosofia, anche tutte se gli riusciva.
Era un piacere a cui non avrebbe mai rinunciato: sentiva rievocare i grandi pensatori del passato e gli sembrava di essere in paradiso, lì dove tutto è perfetto, come un giardino bellissimo in cui passeggiare a fianco di quegli eroi e chiedersi e chiedere chi fosse l’uomo e cosa lo rendesse tale.
L’uomo in astratto, per intenderci, a mio padre non interessavano molto quelli in carne e ossa.
Non che fosse incapace di sentimenti ma l’unico vero amore della sua vita erano quei mondi geometrici e razionali che solo la filosofia sapeva mappare.
In mezzo a questo un amore più grande degli altri: gli occhi di mio padre brillavano quando il programma di filosofia arrivava a Socrate.
Se ne stava rapito ad ascoltare il racconto della sua vita, della sua fama di integerrimo uomo delle istituzioni, della sua inarrivabile capacità di suscitare le migliori virtù dei suoi discepoli.
E se c’è l’Eden in terra, per mio padre era il Critone.
Lo avrebbe saputo ripetere a memoria parola per parola per quante volte l’aveva letto.
Eppure non avrebbe rinunciato per nulla al mondo ad ascoltare quei professori, perfino i più stanchi e disillusi, perfino l’alcolizzato cronico professore Russo e la sua voce impastata.
Tremava per l’emozione quando sottolineavano, ognuno secondo i suoi mezzi, la mirabile equivalenza tra leggi e giustizia che per Socrate era stata un credo assoluto e per la quale preferì sacrificare la sua vita – lui che era il più giusto tra gli ateniesi e che subì l’onta di una condanna ingiusta – pur di non tradire il suo altissimo ideale.
Questo era mio padre. Non era solo un bidello innamorato della filosofia.
Aveva anche trovato il tempo e il coraggio di accantonare temporaneamente la sua passione per corteggiare mia madre, sposarla e avere un figlio, me.
Mi chiamò Socrate, poteva essere altrimenti?
Mamma protestò blandamente – un nome così le sembrava un fardello troppo pesante da portarsi appresso per tutta la vita – ma mio padre, solitamente mite e dialogico, non volle sentire ragioni.
Socrate e basta.
Non lo critico per questo: le passioni sono importanti e la sua coincideva con la vita e le parole di un uomo vissuto millenni prima.
Mio padre fu buono con me.
Mi volle bene, mi insegnò tutto quello che sapeva partendo ovviamente da Socrate, mi fece riflettere su ognuno dei suoi insegnamenti, mi spinse a conoscere me stesso, fece di me quello che sono. Poi un giorno morì nel sonno.
Mamma e io lo piangemmo ma un po’ alla volta il dolore lasciò spazio alla dolcezza del suo ricordo.

Ora sono un uomo adulto e vivo la mia vita.
La mia seconda vita, per la precisione.
Un paio d’anni fa due carabinieri hanno bussato alla mia porta, mi hanno consegnato un’ordinanza di custodia cautelare e mi hanno portato in carcere.
L’ho letta da cima a fondo, inorridendo ad ogni riga, e ho saputo che il titolare di una gioielleria non distante da casa mia mi ha riconosciuto come uno dei malviventi che erano entrati armi in pugno nel suo negozio e si erano portati via decine di gioielli e orologi preziosi.
Non è vero, non mi sarei mai sognato di rapinare qualcuno, non ho mai scordato gli insegnamenti di mio padre ma intanto ero entrato nel girone dei dannati.
Un anno di galera e poi l’attivismo del mio avvocato mi ha fatto avere i domiciliari.
Ero preparato a questo momento.
Ho lasciato passare una settimana, poi una notte sono uscito di casa e sono salito sulla macchina di un amico che mi aspettava lì davanti.
Cosa ho fatto dopo non posso dirlo, metterei a rischio tante persone che mi hanno aiutato.
Dove sono non posso dirlo neanche, per la stessa ragione e anche perché mi beccherebbero all’istante.
Posso solo dire che ho lasciato l’Italia e non ho nessuna intenzione di tornarci.
Ogni tanto penso a mio padre e, ovviamente, anche a Socrate.
Mi chiedo se ho tradito entrambi ma poi mi rassereno, no, non li ho traditi.
Socrate non scappò, non volle ascoltare i suoi amici che lo spingevano a riparare in Tessaglia.
Non io, io sono scappato e non tornerò.
Ma Socrate invitò ognuno di noi a conoscere se stesso e mio padre mi disse che questa era la cosa più importante.
Bene, l’ho fatto.
Ho conosciuto me stesso.
E so qualcosa di essenziale: col cazzo che mi fido della giustizia.